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Autoscatto di Lee Friedlander (foto da www.fotografiamoderna.it)

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È possibile stabilire un collegamento tra l’esperienza artistica, classica e ideale, di Antonio Canova e la fotografia, in particolare in bianco e nero? L’abbiamo tentato a Rovereto, in un confronto serrato fra alcune sculture dell’artista neoclassico e le fotografie di grandi maestri che si sono misurati con il nudo maschile e femminile, da Helmut Newton a Mapplethorpe.

E nei suoi gessi Canova insegue l’epidermide dei suoi modelli che attendono di essere restituiti alla vita con analoghi mezzi o con riproduzioni. Ora siamo noi davanti a lui. Alla sua luce, alla vita vibrante nel marmo: “vera carne”.

Cosi come aveva inteso per primo Johann Joachim Winckelmann: “La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione.

Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata”.

La mostra del Mart di Rovereto si avvale del prestito di alcuni fondamentali gessi, marmi, dipinti della Gipsoteca e, partendo di lì, propone un itinerario di interpreti ufficiali ed eretici, nel mondo della fotografia, sia di studio e d’interpretazione dei gruppi canoviani, sia di conferente ispirazione al tema del nudo femminile e maschile.

Nel 1979, a margine della grande esposizione, voluta dall’UNESCO, “Venezia ’79: la fotografia”, tra le prime consacrazioni pubbliche dell’infinita potenza creativa della fotografia (officianti Daniela Palazzoli, Italo Zannier ed io), mi trovai ad accompagnare in viaggio in treno, da Venezia a Milano, il fotografo americano Lee Friedlander.

Dal finestrino del treno scattava continuamente, niente in particolare, e io ebbi la sensazione che la fotografia, diversamente dalla pittura e dalla scultura, non era per lui un momento eletto, l’hic et nunc, l’attimo decisivo in cui la realtà ti si offre nella sua verità, per un attimo, prima di dissolversi; ma come un respiro, un prolungamento della vita, un organo del corpo creato dalla natura come il cuore, il fegato, i polmoni. Lee scattava, scattava, senza fermarsi un attimo. Aveva allora quarantacinque anni, io ventisette: Friedlander era particolarmente conosciuto per le sue fotografie in bianco e nero (scattate principalmente con una Leica 35-mm), che generalmente ritraevano soggetti insignificanti della quotidianità, senza selezione e senza scampo, come cartelli stradali, vetrine, alberi e altri dettagli infiniti. La realtà senza affetti, effetti ed emozioni.

Sin dall’inizio della sua ricerca Friedlander ha utilizzato tecniche per complicare e distorcere la visione delle cose ritratte, privilegiando, se si può dire, le immagini riflesse di oggetti visti attraverso vetrine di negozi, porte e lastre di vetro, specchi di varie dimensioni.

Ora lo vedo nelle fotografie esposte alla mostra “Antonio Canova, tra innocenza e peccato” al Mart di Rovereto, e mi pare di essere ancora con lui in un viaggio quotidiano, senza fine. I suoi nudi di giornata sono un omaggio involontario a Canova, sono ninfe dormienti con i corpi tiepidi, di cui sentiamo i palpiti. Lo sapeva anche Canova quando muoveva le sue mani nell’argilla per plasmarla, trasmettendo alla terra l’anima delle sue dita, come aveva imparato dal suo maestro Giuseppe Bernardi, sempre secondo i precetti di Winckelmann: «abbozzare con fuoco ed eseguire con flemma».

Sono le due anime di Canova. Come ci ricorda Giuseppe Sava: «è lo stesso modo concitato di modellare, in aperto contrasto con la lenta e sensibilissima finitura della superficie del marmo». Da lì inizia il viaggio durante due secoli che la mostra documenta. Da Canova a Mappletorphe. Senza ritorno. Oltre Canova, dopo Rimbaud: “Le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens”.


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