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Illustrazione di Roberto Melis

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Metafora e allegoria hanno in comune l’alludere ad altro. Con quale differenza? Mentre nella metafora il nesso con l’ “altro” è fulmineo, nell’allegoria a essere poste in stretta relazione sono due narrazioni, una che si riferisce a cose e fatti concreti, l’altra a cose e fatti immaginari.

Non solo: mentre la metafora chiama in causa sensibilità e capacità intellettive per lo più individuali, l’allegoria presuppone la condivisione di un’idea di mondo, di valori, di codici. E dunque rapporti di vita comunitari.

Ma occorre anche che sia operante la «distinzione fra naturale e soprannaturale», sconosciuta ai primitivi (Remo Cantoni, 1941). L’allegoria nasce infatti dalla necessità di ricongiungere ciò che, con l’uscita dall’animismo, è stato separato.

Nelle società post-animiste strutturate in comunità l’allegoria è di casa: non solo è continuamente rinnovata nei riti, ma è anche strettamente intrecciata alla vita quotidiana. È in questo ambito che ha potuto prendere corpo un’attitudine diffusa a connettere mondi distinti: una cultura radicata nelle coscienze di cui si è nutrita e con cui ha interagito la creazione artistica.

Per rimanere in Occidente, senza questo humus non avremmo – solo per fare degli esempi – i capitelli romanici, La Divina Commedia, il ciclo di affreschi L’Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti o i Sacri Monti voluti da Carlo Borromeo.

La riprova è che, con il progredire della secolarizzazione, si è molto prosciugato il terreno di coltura dell’allegoria. Se nell’espressione artistica c’è ancora un qualche spazio per l’allegoria lo si deve all’attivarsi di quelle che Henri Focillon, nel 1934, ha definito «famiglie spirituali» (con particolare attenzione alle «famiglie formali», legate al «gioco delle affinità recettive e delle affinità elettive nel mondo delle forme»). O anche a quelle che Stanley Fish (1964) ha chiamato «comunità interpretanti».

In ogni caso, se nella modernità l’allegoria si riaffaccia, è “a sbalzo” perché l’altra polarità, il mondo “altro” (se non sovrannaturale) che si vorrebbe riconnettere al mondo “reale”, per essere credibile, presuppone che il soggetto che avanza la narrazione (scrittore, artista visivo, ecc.) sappia anche allo stesso tempo conquistarsi uno spazio di ascolto e di condivisione.

Un’impresa, anche se non impossibile; come testimonia l’opera di Franz Kafka, che del mistero, e insieme dell’incombere di questo “altro” ha fatto la sua cifra. O, come attestano, per fare ancora un esempio, Le città invisibili di Italo Calvino.


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