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TUTTI gli eventi catastrofici hanno un effetto dirompente, più o meno durevole e grave, a seconda della loro portata e durata, su quella complessa macchina sociale che chiamiamo economia. Terremoti, guerre, epidemie incidono in genere sulla struttura demografica, sull’apparato produttivo, sui livelli dei consumi, sulle risorse naturali e sulle infrastrutture. Tuttavia, nonostante la loro frequenza e rilevanza sulla vita delle società, solo per le guerre esiste una una vasta memoria e pubblicistica storica, ricerche e studi che non si hanno, se non in forme sporadiche, né nel caso dei terremoti (così frequenti nella nostra storia e in quella delle regioni mediterranee), né nel caso di epidemie e pandemie.

Eppure, come ricorda Tonino Perna nel suo recente e tempestivo lavoro, “Pandeconomia. Le alternative possibili” (Castelvecchi Editore, 2020) nei paesi del «Sud-Europa, ci sono Madonne e Santi che sono venerati come Protettori di città e borghi antichi perché almeno una volta li hanno salvati dalla peste, dal colera e altre pandemie. Nel tempo, nella memoria collettiva si è persa l’origine di questi riti religiosi, che ormai vengono vissuti come giorno di festa». Sugli effetti della guerra l’autore ricorda un accenno di Adam Smith e le riflessione, in età contemporanea, di Walter Ratnenau e John Maynard Keynes. Il grande intellettuale tedesco, manager industriale e ministro della Ricostruzione e poi degli Esteri, in Germania, fu il primo economista nel ’900 ad occuparsi delle dinamiche dell’“economia di guerra” e a trarne conseguenze rilevanti.

Dalla sua diretta esperienza di manager e di ministro osservò – sottolinea Perna – alcune trasformazioni “fondamentali che riscontriamo oggi nell’economia della emergenza, o meglio nella “pandeconomia” che stiamo vivendo. La prima è la messa in discussione, o comunque la riduzione dei processi di globalizzazione. La seconda è una conseguenza di questi processi di de-globalizzazione con una ripresa di ruolo e valore del mercato interno. La terza riguarda il potere dello Stato che si rafforza e delle istituzioni che sono obbligate a trasformarsi”.

Paradossalmente, per citare le parole con cui Keynes riprende Rathenau, “riusciremo così a cogliere l’occasione della guerra per realizzare un progresso sociale positivo”. È quanto ci aspetteremmo, con vacillanti speranze, dal presente governo. Perna getta un sguardo sintetico ed essenziale sulle epidemie anche dell’età moderna, sottolineando l’ampiezza e la ricorrenza delle devastazioni che interessarono le più ricche e popolose città italiane, quelle più legate al mercato internazionale: “Ma, quello che più colpisce” – aggiunge – “e che è stato in parte ignorato, è che molte città sono state colpite dall’epidemia più volte: Venezia 21 volte dal 1348 al 1630, Parigi 23 volte dal 1379 al 1596, Firenze 25 volte dal 1348 al 1630-31, e Besançon addirittura 40 volte.”

Tali funeste ricorrenze hanno avuto una incidenza molto grave sulle strutture demografiche degli stati, con un impatto economico depressivo che si protraeva per decenni. Nello stesso tempo, tuttavia, esse alimentavano una crescente concentrazione dei poteri dello Stato, che inaugurava nuovi strumenti di controllo sanitario. E qui Perna ricorda le note tesi di Michel Foucault sul ruolo che la medicina e la clinica hanno giocato nell’accrescere il potere dello Stato sul corpo dei sudditi e dei cittadini. Naturalmente la parte centrale del libro si concentra su quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. E l’autore avvia la sua rapida ricognizione ponendosi la domanda fondamentale: “È legittimo domandarsi: questa pandemia tende a incrinare o rafforzare il finanzcapitalismo? Ovvero: le trasformazioni economiche causate da questa epidemia quali ripercussioni, di medio-lungo periodo, avranno sul modo di produzione capitalistico, nell’era dell’egemonia finanziaria?”.

La risposta al quesito, ovviamente problematica, prende in considerazione fenomeni in atto, ma anche previsioni di medio periodo, come la caduta del PIL delle varie economie nazionali, il crollo dell’occupazione, la paralisi di alcune componenti fondamentali dell’economia globale, come il turismo, ma nello stesso tempo l’incremento sempre più dispiegato del capitalismo delle piattaforme. Una estensione del processo di accumulazione e al tempo stesso “il modo con cui si sta trasformando il capitalismo finanziario, sempre meno visibile e controllabile. Piattaforme digitali che diventano i custodi e padroni dei nostri dati sensibili, delle nostre scelte di consumo, della nostra vita”.

L’opera non si limita ad analizzare l’esistente, uno dei suoi pregi è lo sguardo che getta sia sugli effetti economici, sociali e ambientali della pandemia in corso, sia sui possibili scenari futuri. Con alcune sorprese. La paralisi dell’attività economica, ad esempio, ricorda Perna, “tra riduzione dell’inquinamento, delle vittime sul lavoro e sulla strada, ha salvato qualcosa come 420 mila persone, di tutte le età e di tutti paesi del mondo che hanno adottato misure di contenimento della mobilità delle persone e della produzione di merci.” Uno degli “effetti desiderati” si potrebbe dire, di un evento contagioso che sta ancora provocando centinaia di migliaia di vittime. Quanto agli scenari auspicabili, Perna sottolinea la ripresa, in tempo di crisi, delle economie di prossimità, quelle fondate sulla piccola agricoltura, sull’accorciamento della filiera agro-alimentare, il piccolo commercio, la vita di quartiere e la rivitalizzazione del territorio.

In tale direzione si muove la necessaria rivalutazione delle aree interne e una nuova politica per le città, oggi svuotate della loro vita pubblica e selvaggiamente mercificate. Infine, la rivalutazione dei sentimenti di solidarietà promossa dal drammatico imperversare delle morti, dovrebbe animare i comportamenti anche in tempi normali e ispirare la condotta economica dei cittadini, tanto sul piano produttivo che su quello dei consumi.


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