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Domenico Scandella detto Menocchio di professione mugnaio in un’illustrazione di Alberto Magri

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“… ma è stà un peccato aver brusado quel libro”, esclama Menocchio riferendosi alla Bibbia. Per quel mugnaio friulano, mandato al rogo dall’Inquisizione alla fine del Cinquecento, la cui vicenda ci consegna Carlo Ginzburg nel suo libro “Il formaggio e i vermi” (Einaudi, 1976), bruciare la Bibbia è un peccato. Persino per lui, che del peccato ha un’idea tutta particolare.

Nella sua riduzione della religiosità a morale il peccato è, semplicemente, commettere del male al prossimo. Punto. Un’idea del tutto moderna. Inoltre, per questo mugnaio, Dio è poco più che aria e fiato, confessarsi davanti a un prete equivale a farlo davanti ad un albero, l’atto creativo può spiegarsi con l’immagine dei vermi che nascono dal formaggio putrefatto. La sua cosmogonia, in fin dei conti, ruota tutta intorno al formaggio e ai vermi. Menocchio è pur sempre un mugnaio del suo tempo, il sedicesimo secolo dopo la venuta di Cristo.

Ma bruciare quel libro, la Bibbia, è un peccato, questo sì. D’altronde, è grazie alla lettura della Bibbia, e di altre sue interpretazioni, in particolare di quelle databili al periodo medievale, che Menocchio riesce ad immaginarsi una realtà metafisica diversa da quella che viene proposta (o, meglio, imposta) dalle gerarchie ecclesiastiche. Quando parla di questa visione religiosa (che di religioso, in senso tradizionale, ha ben poco) Menocchio mantiene la schiena dritta – “in posizione eretta”, senza “funi”, la condizione che in Levitico 26,13 è propria degli uomini liberi, di chi agisce e parla, nel Nuovo Testamento, con “parresia” – dinnanzi ai compaesani e, soprattutto, agli inquisitori, che lo accusano e lo condannano di eresia.

Di fronte alla moglie del cugino che, per sfuggire all’inquisizione, getta la Bibbia nel forno, il mugnaio avverte nel libro che brucia una potenza sacrale. Probabilmente non del libro in sé, è ovvio, ma della parola ivi contenuta, certamente. Che sia o meno di Dio, è comunque una parola che ha contributo, in maniera determinate, ad emanciparlo, finalmente, dalle nebbie dell’ignoranza.

Ma, sia chiaro, l’esclamazione del nostro Menocchio non è un accento di residuale o recondito devozionismo. È peccato bruciare la Bibbia, per lui, non lo è, però, leggerla, nonostante le gerarchie della Chiesa di Roma proibissero al popolo di approcciarsi al testo sacro, specie in alcune sue parti considerate nocive alla vita spirituale. È anche su questo aspetto, per altro, che si basava la contestazione di Martin Lutero. Per questo motivo Menocchio veniva apostrofato di essere “luterano”.

“Sola Scriptura” sottolineava il monaco agostiniano, di origine tedesca, che, come riformatore religioso, da lì a poco, avrebbe, con la sua riflessione teologica, ridotto in frantumi la cristianità europea, per riprendere la bella immagine di Mark Greengrass. D’altronde, poco più di sessant’anni prima dell’affissione delle 95 tesi di Lutero (1517), Gutenberg aveva già proiettato il continente nella modernità lavorando al primo libro stampato in Europa con la tecnica dei caratteri mobili: la Bibbia. Ai nostri giorni l’esemplare della Bibbia di Gutenberg è stato dichiarato dall’Unesco, nel 2001, patrimonio dell’umanità. E si comprende facilmente il perché. La Bibbia a stampa è, nei fatti, il primo libro moderno.

La Bibbia da segno conteso di autoritarismo ecclesiastico diventa, essa stessa, simbolo di modernità e di libertà e – come la vicenda del mugnaio Menocchio insegna – di rivalsa della cultura popolare su quella dotta. C’è tutto nella Bibbia; la Bibbia è tutto, nelle sue plurime contraddizioni. Ne “L’usignolo di Wittenberg” (1903), lo scrittore e drammaturgo svedese August Strindberg fa dire a Lutero che la Bibbia è un libro “terribile” (etimologicamente parlando, che “atterrisce”), in quanto contiene “tutto”.

“C’è qualcosa di personale in quel libro, di personale per ogni persona”, sostiene il Lutero di Strindberg. Ed ha ragione. Tanto che non credo di sbagliare se paragono la Bibbia, come simbolo, alle due forze, opposte e complementari, del pensiero taoista, Yin e Yan: l’eterna dualità della realtà delle cose è la totalità dell’universo. Una totalità che la Bibbia è capace di contenere e di farne una mirabile sintesi. Un’intuizione, questa, che è confermata anche dalla lettura “non ebraica, non cattolica, non protestante e certamente non laica” che della Bibbia propone Roberto Calasso (“Il libro di tutti i libri”, Adelphi, 2019), secondo il quale il testo sacro è una “compagine elusiva e informe”, “un magma in perpetuo movimento”, un campo di forze dove elementi incompatibili tentano di neutralizzarsi o di eludersi. Ma spesso sussistono, forse anche perché così incompatibili non erano…”.

Tutto questo agli occhi dell’interprete occidentale potrebbe apparire privo di senso pratico. La presenza di frammenti contradditori, nel loro significato, può facilmente essere spiegata con la stratificazione storica, nel tempo, di più fonti letterarie. Per lo sguardo occidentale sul mondo, mediato dalla lente della logica aristotelica – che si costruisce sui tre principi dell’identità, della non-contraddizione e del terzo escluso -, la razionalità equivale al sistema e, banalmente, due affermazioni contraddittorie non possono coesistere in uno stesso sistema.

Ma questo non significa che nella Bibbia non ci sia razionalità. La razionalità della Bibbia, propria della tradizione talmudica, è altra rispetto a quella occidentale di tipo sistematico, ma rimane sempre una razionalità. Seguendo quanto scrive il comparatista H. Patrick Glenn, nel suo “Tradizioni giuridiche nel mondo” (il Mulino, 2011, traduzione italiana di Sergio Ferlito) lo stile del ragionamento talmudico resiste, con i testi, le sue interpretazioni e le disparate forme di vita, alla sistematizzazione in quanto “respinge i tipi di prova semplici e apparentemente soddisfacenti” e “nulla è stabilito… tutto è costantemente rimescolato nel turbinio del confronto di opinioni”.

Per questo motivo, la Bibbia è effettivamente il libro di tutti i libri. E, sempre, rimane alla cima delle classifiche di vendita. Ma ovviamente della Bibbia ci sono ormai diverse interpretazioni, letture, traduzioni. La Bibbia ebraica è diversa, ad esempio, dalla Bibbia che troverete a casa di un cristiano, per quanto riguarda i libri che la compongono.

La Bibbia cristiana rispetto a quella ebraica, accanto ad un “Vecchio Testamento” ha un “Nuovo Testamento”, sulla vita di Gesù. Ma, anche nella stessa tradizione cristiana, la Bibbia cattolica è diversa, in parte, da quella protestante. Forse è stata quindi un’operazione di onestà intellettuale quella di Philippe Lechermeier che, con le illustrazioni di Rébecca Dautremer, “una bibbia” (Rizzoli, 2014) con l’articolo indeterminativo. “La Bibbia – ci dice Lechermeier – non appartiene solo alla religione. La Bibbia appartiene a tutti. Che si sia credenti o no, che lo si voglia o meno, le storie che vi sono narrate e i personaggi che vi sono raccontati hanno plasmato il nostro modo di pensare, le nostre idee, i nostri valori e sono anche la materia dei nostri sogni”.


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