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Che è quasi Natale te ne rendi conto dalla Via Lattea di lucine accese ovunque e dal fatto che nessuno – nemmeno Greta Thunberg o la Federconsumatori – ci inviti a spegnerle ricordandoci le questioni climatiche o la stangata in arrivo della bolletta dell’elettricità.

Te ne rendi conto dalla Muraglia cinese di panettoni nei supermercati, dalla pubblicità della Coca Cola, dai ragionamenti in ufficio, calendario alla mano, su chi prende le ferie e quando. Te ne rendi conto perché, puntualmente, si scatenano i moti popolari per il presepe nelle scuole.

C’è chi non lo vorrebbe in nome del principio di laicità dello Stato e di una società multietnica: non si devono imporre simboli cristiani a bambini di famiglie che credono in altre religioni o non sono credenti. C’è chi il presepe lo pretende, eccome, rivendicando il cattolicesimo come parte integrante della propria identità, anzi del proprio corpo, al pari di una gamba o un braccio.

È la solita zuffa prefestiva: la recita dei genitori che precede la recita dei bambini. Alcuni minacciano che ritireranno i propri figli da scuola se in classe si canterà “Astro del ciel”. Altri minacciano di fare altrettanto se in classe non si canterà “Astro del ciel”.

Voglio rassicurare tutti che cantare o non cantare “Astro del ciel” in classe non è determinante per lo sviluppo psico-fisico di un bambino dell’asilo, semplicemente perché non ne capisce il significato. Cosa volete che capisca un bambino della frase “Tu che i Vati da lungi sognar”? Cosa volete che sappia di cos’è un “Redentòr”? Io – che “Astro del ciel” l’ho cantata a ogni recita di Natale – ero convinta che Dentòr fosse il nome di un re: re Dentòr.

Quest’anno a stupirmi non è soltanto la veemenza dei toni con cui si affronta l’argomento presepe, ma il fatto che, mentre ci si accapiglia, passi in sordina la notizia del crollo del controsoffitto in una scuola elementare a Orte. Sedici bambini sono stati messi in salvo un attimo prima, grazie a Dio, ad Allah, a Buddha, o al presentimento di qualche maestro.

L’episodio di Orte non è un caso isolato. Un report di Cittadinanzattiva ha denunciato che in Italia ogni tre giorni in un edificio scolastico si verifica un crollo, “mai così tanti dal 2013”. La tragedia di San Giuliano del 2002, nella quale morirono ventisette bambini e la loro maestra, non è servita a farci capire che se c’è una “messa” da fare con urgenza è la messa in sicurezza. Si continua a guardare la pagliuzza (quella della mangiatoia del presepe) e non ci si accorge della trave (quella del soffitto che cede).

Ci si infervora nei dibattiti sul crocifisso nelle scuole, ma a San Giuliano, a fare la differenza non è stata la presenza o l’assenza del crocifisso: i simboli non sono dotati di funzione statica e antisismica.

Quest’anno, al di là di ogni religione, mi piacerebbe che tutti, consapevolmente, recitassimo un Credo comune: “Credo nella responsabilità degli uomini. Credo nella giustizia, che sia fatta qui, in terra, e non delegata al regno dei cieli. Credo nella verità: di infinite versioni l’unica capace di far tornare tutti i conti. Credo nella politica lontana dal divismo. Credo che la corruzione e la speculazione siano il cancro di questo Paese e vanno estirpate come le malerbe. Credo in chi non spreca, ma salva il salvabile. Credo in chi professa, indipendentemente dalla religione, la sacralità della vita. Credo che ci sia qualcosa di divino in tutti quelli che mettono in opera il bene. Credo che sia disonesto chiamare “tragedie” eventi che in un Paese civile si possono e si devono evitare. Credo che vada abolita l’espressione “Così sia”, intesa come accettazione di una volontà superiore e divina, laddove basta una volontà inferiore, la nostra, a far andare diversamente le cose. Senza più dire ‘Amen’”.


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