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Carmine Abate durante un reading

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“La collina del vento” nell’elenco Unesco per la giornata mondiale del libro, Carmine Abate racconta al Quotidiano cosa vuol dire scrivere

“LA COLLINA del vento” con cui lo scrittore Carmine Abate ha vinto il 50° premio Campiello nel 2012 e “Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro sono stati inseriti nell’elenco che l’Unesco ha stilato per celebrare quest’anno la giornata mondiale del libro. Una mappa del romanzo che attribuisce due libri a ciascuna regione nata con l’intento di legare la narrativa al territorio e stimolare l’interesse dei lettori.

Le opere di Abate e Alvaro sono state scelte per la Calabria. Da poco, peraltro, è uscita una nuova edizione de “La collina del vento”, negli Oscar 451 Mondadori.

Abate, che effetto le fa essere insieme ad Alvaro?

«Al di là dell’ovvia soddisfazione, ne sono rimasto piacevolmente sorpreso, perché proprio “Gente in Aspromonte” è stato il primo libro non scolastico che ho letto l’estate dei miei sedici anni. Alvaro mi ha fatto capire che anche la nostra terra si poteva (e si doveva) raccontare, tant’è che da allora ho sentito anch’io l’esigenza di raccontarla».

A proposito de “La collina del vento”, lei ha scritto che è nata da una promessa…

«Sì, dalla promessa fatta a mio padre nell’ultimo anno della sua vita: che avrei raccontato le storie che mi raccontava, anche quelle più segrete e scomode, prima che morissero con lui. Fino alla fine mio padre ha continuato a raccontarmi storie che andavano sempre più a ritroso nel tempo, come l’occupazione delle terre vissuta in prima persona o l’emigrazione di nonno Carmine nella “Merica Bona”. Ho compreso solo dopo la sua morte che quelle storie autentiche erano l’eredità più grande che mi lasciava. Da questa promessa è nata dunque l’urgenza che sta alla base della “Collina del vento” e di ogni mio romanzo. Senza, la scrittura sarebbe un arido esercizio, che non appassionerebbe neanche l’autore, figuriamoci il lettore!».

Come descriverebbe, in sintesi, questo romanzo con cui ha anche vinto il Campiello?

«È la saga della famiglia Arcuri, che abbraccia più di cento anni di storia. Una famiglia che resiste prima ai soprusi del latifondista locale, poi alle intimidazioni mafiose e, nei giorni nostri, ai cosiddetti signori del vento, che stanno riempiendo la Calabria di pale eoliche e vorrebbero costruirne due sulla collina del Rossarco. Gli Arcuri non aspettano elemosine dall’alto, amano la loro terra, la curano, la rispettano e la difendono. Senza le famiglie con questa consapevolezza, il riscatto del Sud non sarà possibile. E senza riscatto non ci sarà futuro».

La collina del vento è un luogo reale che si trova nell’Alto Crotonese, tra Carfizzi e Cirò Marina, ma sembra anche il simbolo dell’intera Calabria, di cui Lei cerca di recuperare la memoria…

«Sì, è un luogo reale e, nel contempo, è simbolo di una terra ferita e bellissima. Da sempre mi ha affascinato per l’alone misterioso che l’avvolge, per i fiori di sulla che in primavera la colorano di rosso, per i tesori archeologici che nasconde, dato che pulsa nel cuore della Magna Grecia. Il recupero della memoria avviene concretamente negli scavi degli archeologi che cercano la mitica Krimisa e attraverso il lavoro di scavo del narratore nella pagina. In questa maniera, strato dopo strato, viene recuperata la memoria del mondo nelle viscere della collina e di quello rigoglioso e sanguigno (se non sanguinante) in superficie, entrambi ricchi di storie e di misteri».

Carmine Abate, l’urgenza di scrivere, di cui lei ha più volte parlato nelle presentazioni dei suoi libri, è dunque legata anche al recupero della memoria?

«Per me scrivere vuol dire scavare nella propria vita e nella memoria collettiva. Una memoria necessaria. Io la immagino come una grande luce del passato che è capace di illuminare il nostro presente. Aggiungerei, citando uno dei miei autori preferiti, Elias Canetti, che lo scrittore è il custode della metamorfosi, cioè della memoria che si trasforma fino a diventare presente».

Veniamo allora al presente. Come sta vivendo questi giorni messi sotto assedio dal Coronavirus?

«Sto scrivendo un nuovo romanzo e nello stesso tempo ho rivisto le nuove edizioni di due miei romanzi che usciranno a fine maggio nei nuovi Oscar 451 della Mondadori: “Le rughe del sorriso” e “Tra due mari”».

Dopo l’attacco a sorpresa del virus che ha scardinato le nostre quotidianità, quali saranno le parole che ci potranno servire a scrivere il nostro futuro?

«Sicuramente comunità, condivisione, solidarietà e responsabilità, tutte parole legate tra loro. Forse oggi capiamo finalmente che nessuno di noi è un’isola, ma siamo legati gli uni agli altri. E apprezziamo di più uno dei beni più preziosi che abbiamo: la libertà. Per non essere sorpresi da altri virus e catastrofi annunciate, ci sono tre ambiti da salvaguardare, dopo che per decenni sono stati sacrificati dal potere: la salute, l’ambiente, l’istruzione».

Tornando a lei, invece, ci sono parole della sua infanzia che fanno ancora parte del suo lessico privato e quotidiano?

«Io direi partenza e ritorno, che mi hanno accompagnato da quando avevo quattro anni e vedevo mio padre partire per lavoro e ritornare dopo undici mesi, mentre oggi a partire e tornare sono io, sono i miei figli. E poi l’intero lessico della mia madrelingua, l’arbëresh, essendo io nato in un paese della Calabria in cui si parla ancora oggi l’albanese antico. Per me l’arbëresh è gjuha e zemëres, la lingua del cuore, quella che parlavo da bambino, mentre poi a scuola ho imparato gjuha e bukës, la lingua del pane, che per me è stato l’italiano, per mio padre il germanese e per mio nonno il mericano».

In uno dei suoi libri più recenti, “Il banchetto di nozze e altri sapori” edito da Mondadori, il destino del protagonista è intrecciato con le pietanze “saporitòse” di cui si nutre: dalla nascita in Calabria alla maturità nel Nord. Penso alla polenta con la ‘nduja, sintesi perfetta di Nord e Sud… I sapori o meglio i loro ricordi che come le madeleine di Proust ci riconducono al luogo di partenza?

«Avendo vissuto in tanti posti diversi, mi sono accorto che ogni luogo è un sapore, che arricchisce non solo il nostro palato ma la nostra vita. L’importante è che questi nuovi sapori li aggiungiamo ai sapori della nostra terra, di quelli siamo fatti nel profondo, anche se viviamo altrove. La polenta con la ‘nduja, pietanza creata da mia moglie che è tedesca, mi sembra spieghi meglio di tante parole il concetto che mi sta molto a cuore: vivere per addizione, cioè prendere il meglio dei tanti mondi in cui abbiamo vissuto; trasformare finalmente la ferita della partenza in ricchezza umana e culturale; voler bene al Nord e al Sud».

Qual è “L’albero della fortuna” di cui parla già dal titolo nel suo ultimo libro, uscito da Aboca Edizioni nella collana “Il bosco degli scrittori”?

«È il fico, che poi è anche la mia pianta preferita. Un albero tenace che cresce ovunque, anche dai muri delle vecchie case, anche nel cemento. È una pianta straordinaria, il fico, generosa, che fruttifica due volte all’anno. Nel mio libro diventa il simbolo della natura che resiste all’insensatezza degli uomini, che fanno di tutto per distruggerla. Ne sono consapevoli i protagonisti della storia, in particolare il piccolo Carminù che, con l’aiuto del vecchio Nuni Argentì, cerca di difendere il fico con le unghie e con i denti, affrontando così una delle grandi prove che lo faranno crescere».

Abate, cos’hanno in comune il vecchio e il bambino del Suo libro?

«Lo sguardo disincantato sul mondo: è come se lo ricreassero ogni volta che i loro occhi si posano su un dettaglio. Grazie a questo sguardo, entrambi riescono a cogliere l’anima del fico e la rispettano».


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