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Mario Monicelli era nato a Roma il 16 maggio 1915. Nella sua città è morto il 29 novembre 2010

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“BEH, bisogna vedé che storia, ci sono storie brutte, storielle, storiacce. Il fatto di essere storia non è mica una cosa positiva di per sé!”.

Rispose così Monicelli, a chi lo aveva definito “la storia del cinema italiano”. Lui, che voleva diventare un romanziere, e che invece abbandonò presto quell’ambizione per “ripiegare” sul cinema. Cominciò a prendere dimestichezza col mestiere facendo l’assistente: “Proprio il più miserabile degli assistenti, quello che accende la sigaretta al regista e lo aiuta a mettere il paltò”. E finì col girare alcune delle pellicole più celebri del nostro cinema.

La sua carriera è segnata dal sodalizio con Stefano Vanzina – conosciuto dal grande pubblico con lo pseudonimo di Steno – nato tra i tavolini dei bar della Capitale. I due passavano anche otto ore al giorno a leggere, discutere e chiacchierare di qualsiasi cosa. Il rito veniva interrotto solo nell’ultima mezz’ora della giornata quando, in uno straordinario lavoro di sintesi, riportavano per iscritto i tratti salienti delle loro discussioni. La collaborazione con Steno, che durerà fino al 1953, produrrà alcune delle commedie più interessanti del primo dopo guerra, come Guardie e ladri, del 1951. I soliti ignoti (1958), pellicola sacra del cinema comico nostrano, è considerato il capostipite di un nuovo genere. Il film stravolge i vecchi canoni della risata: si compone di scene esilaranti che, in pochi istanti, sbattono in faccia allo spettatore la morte di uno dei protagonisti. Con I soliti ignoti Monicelli abbandona la dialettica antagonista tra tutori e trasgressori della legge, rappresentando il lato mite, confusionario e frustrato di un manipolo di aspiranti ladri votati all’insuccesso.

Il Maestro non perde tempo e l’anno seguente gira La grande guerra (1959), con le memorabili interpretazioni di Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Monicelli si era innamorato dell’idea di raccontare il conflitto sotto una luce diversa da quella dei fasti propagandistici del Ventennio. La ricostruzione poco patriottica fece inforcare le penne a molte grandi firme del giornalismo dell’epoca. A garantire l’uscita del lungometraggio fu il futuro presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che diede il beneplacito per l’inizio delle riprese. Il regista “rubò”, come era solito fare, prendendo ispirazione dal romanzo Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu. La sporca e fangosa vita di trincea è lo sfondo, assai poco epico, su cui si alternano personaggi per nulla eroici e molto umani. I soldati italiani non hanno nemici propri, ma avversari, a cui contendere una gallina mentre commedia e tragedia si mescolano lungo il filo rosso della morte.

Con queste opere l’Italia e il mondo scoprono un regista di assoluto livello. Monicelli è però un uomo riservato, allergico alle adulazioni, un uomo di cinema che si vede artigiano. Un mestierante e non un divo. Addirittura, a suo dire, il cinema è un’arte minore perché “gli manca l’impegno solitario: la difficoltà di stare da soli davanti alla pagina bianca, che è la cosa più drammatica ed estenuante che esista”.

Nel 1966 Monicelli lavorò a quel film il cui titolo è diventato una locuzione d’uso comune. L’Armata Brancaleone nacque come sfida alla concezione cavalleresca del medioevo, ridicolizzato e stigmatizzato in personaggi improbabili e in una lingua parlata al limite del ridicolo. Monicelli fu influenzato da La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa e dalle opere letterarie di Miguel de Cervantes (Don Chisciotte della Mancia) e Italo Calvino (Il cavaliere inesistente).

Amici Miei (1975), da un’idea del regista Pietro Germi, narra le goliardate di cinque amici appartenenti a diversi ceti fiorentini. L’opera consacrò, ancora una volta, Monicelli e i suoi cinque scudieri nell’Olimpo della comicità italiana. Le zingarate di Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Philippe Noiret, Duilio Del Prete e Adolfo Celi ancora oggi fanno parte dell’immaginario collettivo. Questi cinquantenni annoiati si divertono a prendersi beffe di molti concittadini e dell’autorità costituita. Gli scherzi crudeli e le battute taglienti non si placano nemmeno davanti alla morte di uno di loro che, prima di spirare, pronuncia la sua ultima supercazzola al prete che gli sta impartendo l’estrema unzione. Dopo verranno Un borghese piccolo piccolo (1977), con Alberto Sordi al secondo ruolo drammatico della sua carriera; Il marchese del grillo (1981), con Sordi nei panni di un nobile arrogante e sornione, che deride tutti, anche il Papa; Speriamo che sia femmina (1985), racconto quasi tutto al femminile in cui gli uomini sono grottesche e ridicole caricature; e Parenti serpenti (1991), caustica rappresentazione del modello familiare attraverso la problematicità dei rapporti tra generazioni, culminante in un finale tragico e scioccante.

Quando la morte, che aveva rappresentato e sfidato, sfuggito e irriso, lo sta per raggiungere, Monicelli vi si getta tra le braccia, prendendola in contropiede. “Io ho scelto esattamente tutto quel che sono / Senza la scelta io la vita l’abbandono / Ho scelto tutto, tutto tranne il mio dolore / Lo ammazzo io e non c’è niente da capire”, sono le parole che nel 2013 il cantautore toscano Appino, frontman degli Zen Circus dedica al regista nel brano Il testamento. Anche la nona traccia dell’album omonimo è ispirata a Monicelli, il titolo riprende la risposta che il Maestro diede alla domanda “Hai paura di morire?”: “Solo gli stronzi muoiono”.


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