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Luis Sepúlveda

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Gracias a la vida que me ha dado tanto/ Me dio dos luceros, que cuando los abro,/ Perfecto distingo lo negro del blanco/ Y en el alto cielo su fondo estrellado/ Y en las multitudes el hombre que yo amo. Grazie alla vita che mi ha dato tanto/ Mi ha dato due occhi, che quando li apro/ Distinguo perfettamente il bianco dal nero/ E in alto nel cielo il suo fondo stellato/ E tra la moltitudine l’uomo che io amo.

La canzone cantata dalla voce morbida e melodiosa di Violeta Parro è stata da sempre la preferita di Luis Sepúlveda e Carmen Yáñez, sua moglie e nota poetessa. Sembra di sentire in canto la loro vita, vissuta tra forti passioni, formidabili dolori. Entrambi hanno conosciuto la lotta politica, l’impegno sociale, la necessità della letteratura di dare una voce a chi non ce l’ha o non riesce a farla ascoltare, la vicinanza con gli esuli, i sognatori, gli uomini di ventura, i diseredati, gli ultimi.

Persone che sembrano lontane dal nostro mondo di accomodante e feroce consumismo, sembrano essere scomparse nella luce fredda delle terre selvagge e inospitali della fine del mondo dove vanno a morire le storie e gli idealisti.

“Penso che la letteratura abbia una grande importanza sociale e lo scrittore un ruolo preciso: è l’accusatore di quella società malata che attenta alla dignità umana”, rispondeva Sepúlveda nelle interviste. E al mondo vivono tutt’ora molti accusatori della nostra società malata, non solo scrittori ma di ogni categoria. Come vivono ancora gli avventurieri, gli idealisti e chi lotta per una giustizia terrena, piccola ma fondamentale. Pochi anni prima di morire, Sepúlveda aveva fondato, insieme ad altri, una minuscola casa editrice che stampava brevi volumetti da un dollaro l’uno.

“Vanno a ruba, c’è fame nei giovani di sapere”, diceva. Lui e gli altri vecchi avventurieri l’avevano chiamata Aún creemos en los sueños, Crediamo ancora nei sogni. Mi sono chiesta che cosa serva per credere alla concreta realizzazione degli ideali, tanto da ammettere il rischio della propria vita, del carcere, della tortura. Dos luceros, que cuando los abro perfecto distingo lo negro del blanco. Gli occhi scuri e caldi di Sepúlveda guardavano a questo modo il mondo, in qualsiasi posto li avesse posati a contemplare i crimini di Pinochet, la vita degli indios Shuar o lo scempio delle balene giapponesi.

“Il volto umano non mente mai: è l’unica cartina che segna tutti i territori in cui abbiamo vissuto”, diceva il killer sentimentale di Sepúlveda. Così gli occhi.

Carmen e Luis si erano conosciuti da adolescenti in Cile, nel clima esaltante ed esigente del ’68. Lui già scrittore, lei poetessa a soli 15 anni, entrambi militavano nei partiti socialisti e comunisti. Si sposarono, si amarono e poi si lasciarono per divergenze politiche. Non si divisero però. A dividerli fu l’arresto di entrambi, la tortura, il destino clandestino e l’esilio.

Quando uscì dal carcere e seppe della cattura di Carmen Yáñez, Sepúlveda fece qualsiasi cosa per farla rilasciare, fino a minacciare di farsi saltare in aria davanti alla Vicaria de la Solidaridad, ma fu costretto a rinunciare e a fuggire. Carmen Yáñez fu torturata fino a essere creduta morta e gettata in una fossa come un sacco di rifiuti, un passante si accorse che era ancora viva, la raccolse, si prese cura di lei.

Recuperarono i contatti in esilio in Europa, convivevano con altre persone, avevano altri figli. Ma l’amore riprese dove era stato interrotto, se ne accorse la moglie tedesca di Luis che invitò Carmen alla loro festa di divorzio, si propose per tenere i bambini, mentre Luis e Carmen andavano insieme a Parigi a ricostruire pezzo a pezzo “la màs bella historia de amor”.

“Ogni giorno alle 13.30 dovevo attendere la chiamata dall’ospedale per avere informazioni dal medico che lo aveva in cura. Tutti i giorni alle 13.30 io ascoltavo le sue parole e poi le trasmettevo in un gruppo su whatsapp che avevo creato per gli amici più intimi. E la mia giornata praticamente finiva lì, ad aspettare le 13.30 del giorno successivo.”

È il febbraio del 2020, la pandemia da Covid-19 imperversa già da mesi, Sepúlveda e Yanez, come milioni di altre persone, sono contagiati, vengono di nuovo divisi. Carmen Yáñez guarisce, aspetta, ogni giorno fino al 16 aprile, “la prova della tua vita per bocca d’altri”, come scrive nella sua ultima poesia, Eravamo così felici e non lo sapevamo, scritta per Sepúlveda ancora in vita. Le ultime parole che lui le dirà saranno “Buonanotte amore”, le stesse che le diceva ogni notte prima di chiudere gli occhi.

“Sono morto tante volte. – Dice Sepúlveda a un suo intervistatore. – La prima quando il Cile fu stravolto dal colpo di Stato; la seconda quando mi arrestarono; la terza quando imprigionarono Carmen mia moglie; la quarta quando mi tolsero il passaporto. Potrei continuare.”

L’intervistatore gli chiede allora se ha paura di morire. “Ci ho fatto l’abitudine”, risponde lui “E poi la vera saggezza è sapere quando le cose finiscono.” Poi aggiunge, però, che “tutto finisce, ma niente è davvero definitivo.”

Ho provato a immaginare la fine sfinita e solitaria di un uomo che aveva tanto goduto, rischiato e lottato, affabulatore e cantastorie, guerrigliero, ecologista, viaggiatore per “giorni estenuanti che sapevano di zaino e di vento”, ma anche un uomo sentimentale, che nelle sue favole parlava con grazia e tenerezza ai bambini e a chiunque volesse starlo ad ascoltare.

“Si scrive per abitare nel cuore della gente migliore”, quando gli chiedevano perché scrivesse, citava spesso questa frase di Osvaldo Soriano, suo amico fraterno.

C’è, nei suoi molti e differenti libri, un personaggio che gli assomigliava particolarmente, il rude, solitario, romantico Juan Belmonte, “tutti e due avevamo lo stesso passato, eravamo stati negli stessi posti e avevamo condiviso dolori e rabbie. Juan Belmonte, il mio personaggio, e io, eravamo fratelli di sconfitte, perdenti che sapevano perché avevano perso.” Con Belmonte condivideva anche una tenace e indistruttibile memoria, degli amori, dei dolori e dei compagni decimati, di coloro che avevano fatto con lui la “Storia non scritta.”

Quando penso a Sepúlveda e a quello che ha rappresentato per la storia e la letteratura del secondo novecento, che ancora può rappresentare, mi viene in mente quello che scriveva su Juan Belmonte, nel caso in cui in futuro avrebbe avuto ancora bisogno di lui: “so che potrò andare a cercarlo ancora a Puerto Carmen. Sferzato dal vento della Patagonia, busserò alla sua porta e lui aprirà, mi guarderà negli occhi e mi dirà «andiamo», perché fra di noi non servono mai tanti discorsi.”


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