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Mia Martini

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MIMI’: una donna e un’artista che sapeva entrare nella vita e ti spiazzava quando lo sguardo malinconico ma aperto sul mondo si accendeva di un sorriso dolcissimo. Graffiava l’aria Mimì e lasciava tracce di sé anche quando la sua presenza appariva impalpabile. Era sempre e comunque, inimitabilmente Mia Martini. Basta ascoltarla cantare, che poi per lei era vivere. Basta anche sfogliare l’album delle fotografie e rivederla – ad esempio – d’estate: bella, col cappello a falde larghe in mano, un corpetto a lasciarle scoperte le spalle, la gonna lunga e lo sguardo fiero sul futuro … Foto e canzoni nel cassetto di una donna e di un’interprete difficile da dimenticare. “Ubriachi di malinconia” come siamo ogni volta che la rincontriamo, anche ora a 25 anni dalla sua scomparsa.

Sulle tracce di Mimì ci saremo anche in quest’estate insolita, dove le ombre del lockdown e della pandemia non svaniscono. Scrivere nuovamente di lei è come ritrovare un’amica che in fondo non è mai andata via. Per “incontrarla” andiamo al Parco avventura di Fregene, pochi chilometri da Roma. Gli alberi della pineta fanno da quinta a “E…state al Wood”: cinque spettacoli, dal 10 luglio al 7 agosto in un cartellone che vede impegnata l’associazione culturale “Rondini”. La rassegna partirà con un’anteprima nazionale: “Chiamatemi Mimì”, omaggio a Mia Martini firmato da Paolo Logli. Uno dei protagonisti è Marco Morandi, in scena insieme all’attrice romana Claudia Campagnola.

Marco Morandi, una bella sfida per te. Come ti sei accostato al repertorio di Mia Martini?

«Sì proprio una bella sfida. Cantare il repertorio di una donna è già di per sé inusuale e non semplicissimo, se ci metti anche che lei è Mia Martini sono cavoli! Il grosso lavoro è cercare di restituire la sua intensità interpretativa. Essendo da solo con uno strumento le canzoni sono molto intime, scarne. È stato emozionante cantarle in prova, in pubblico sarà penso pazzesco! Non vedo l’ora anche se, appunto, ho più timore del solito!».

Dopo Rino Gaetano ancora un tuo omaggio a un nome importante della Canzone italiana. Rino e Mimì entrambi calabresi, di Crotone il primo, di Bagnara la seconda. Come descriveresti l’uno e l’altra dal punto di vista artistico e umano?

«Rino è il “giullare” che schiaffa la cruda verità in faccia al re e a tutta la corte e che fuori dal palazzo è un ragazzo umile e profondo. Mia me la immagino una pantera ferita che col suo ruggito e la sua dignità ti ammutolisce e ti lascia senza fiato».

Domanda inevitabile in questo periodo: come hai trascorso i mesi del lockdown?

«In un momento come questo ho avuto la grande fortuna di vivere in campagna ed è stata una buona occasione per tornare a ritmi più vicini a quelli naturali, per prendersi cura di sé e della propria casa: quindi lavoretti di ogni tipo in giardino e in casa! Oltre la gestione di tre figli maschi in età scolastica… Direi che non mi sono affatto annoiato!».

Sono frequenti le tue incursioni in Calabria. Del resto, Sabrina Laganà tua moglie è di Soverato. Anche quest’estate vi ritaglierete una parentesi in Calabria?

«Ovviamente sì. Tappa fissa da vent’anni ormai! Di solito io vado e vengo perché l’estate è il periodo dell’anno in cui ho più impegni di lavoro. Quest’anno purtroppo e per fortuna resterò in vacanza più a lungo. Soverato ci aspetta e ci accoglie sempre con il suo mare stupendo, la gente calorosa e verace e, non da ultimo, l’ottimo cibo!».

Famiglia d’origine importante la tua e amatissima da più di una generazione di italiani: figlio di Gianni Morandi e Laura Efrikian, fratello minore di Marianna Morandi… Qual è la cosa più importante che ti ha insegnato tuo padre? E quale, invece, quella che cerchi di trasmettere ai tuoi figli?

«L’insegnamento più grande è l’esempio. Ho visto sempre mio padre – come mia madre, del resto – disponibile e gentile verso chiunque: dal presidente della casa discografica, al facchino, al fonico, al fan che si è intrufolato in camerino. Per tutti un sorriso, una pacca sulla spalla, una parola, se serve anche due, sincere. Mi accorgo di farlo anch’io spontaneamente e spero che lo facciano in futuro i miei figli».

Hai cominciato studiando violino dai 5 ai 15 anni. Nel 1997, con alcuni compagni di classe, hai fondato i Percentonetto. Poi Sanremo Giovani e via via, televisione con le quattro puntate di “C’era un ragazzo” su Raiuno, “Taratata” con Enrico Silvestrini, musical con “Gian Burrasca”, cinema con “Liberate i pesci” di Cristina Comencini… Ma qual è la tua dimensione artistica ideale?

«Il musical “Gian Burrasca” mi ha trascinato nel vortice del teatro, da quel momento ho praticamente lavorato solo in teatro, sia come cantante che come attore. A mio giudizio, non c’è niente di più gratificante che cantare con l’acustica di un teatro. Davanti a me un buio pieno di orecchie attente, nel silenzio più totale. Anzi, di gratificante un’altra cosa c’è: sentire quel silenzio rotto da una risata fragorosa o da un applauso sincero».

Per concludere, se dovessi descriverti con tre aggettivi?

«A questa domanda “marzulliana” faccio fatica a rispondere. Te ne dico uno che alcuni miei colleghi usano per schernirmi e che a me fa ridere: democristiano, solo perché cerco sempre di trovare una via di mezzo che accontenti tutti. Ogni volta gli rispondo, credendoci: “in medio stat virtus” (la virtù sta nel mezzo, ndr)».


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