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Francesco Colella

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«Il parco archeologico Scolacium, il pubblico, un grande musicista persiano e un attore italiano: la luna sarà testimone quella sera di un’unione mistica e sensuale tra Oriente e Occidente. L’originalità di “Armonie d’Arte” sta proprio nel nome. Far saltare gli steccati, i confini e gli argini che separano le arti e creare una funzione armonica tra loro è il gesto dirompente e trasgressivo di “Armonie d’arte”». Con queste parole l’attore Francesco Colella commenta “Occidente da Oriente – Nuove e antiche rotte lungo terre e mari di mezzo” con cui mercoledì sera al parco archeologico Scolacium a Roccelletta di Borgia in Calabria, insieme al pianista persiano Ramin Bahrami aprirà “Armonie d’arte festival” diretto da Chiara Giordano. Lo spettacolo – testi persiani e greci a cura di Armando Vitale – è stato inserito anche nel calendario di “Estate all’italiana festival”: iniziativa di Italia Festival e Ministero degli Esteri che si avvale di una piattaforma digitale. In attesa che il sipario allo Scolacium si alzi, l’attore si racconta su “Mimì”.

Colella, veniamo ad “Aspromonte, la terra degli ultimi”, il film di Mimmo Calopresti che a luglio si è aggiudicato il Nastro della legalità – premio speciale dei Nastri d’argento ideato in collaborazione con “Trame- Festival dei libri sulle mafie” – e in cui tu interpreti il ruolo di Peppe Morabito. Il film tratto dal romanzo di Pietro Criaco “Via dall’Aspromonte” (Rubettino Editore) è ambientato nel 1951, ad Africo, paese in provincia di Reggio Calabria dove mancano i servizi essenziali. Quando una donna muore di parto perché il dottore non riesce ad arrivare in tempo e perché non esiste una strada di collegamento gli abitanti esasperati, vanno a protestare dal sindaco. Capeggiati da Peppe decidono di unirsi e costruire loro stessi una strada… Cosa ti ha lasciato questo film girato da un regista calabrese come te e nella tua terra d’origine?

 «Il film di Mimmo si è depositato dentro di me come una delle esperienze più luminose del mio percorso artistico. È un film che racconta come, per sollevarsi dalla miseria, si possa ricorrere a una forza che cresce e si espande nel rispetto della dignità umana. Il gesto della costruzione di quella strada è l’utopia incarnata di una comunità che, senza appellarsi alla protezione criminale, cerca, nella disperazione, una possibilità di vita migliore per se stessa e per i propri figli. È la manifestazione del coraggio e della dignità dell’uomo. La stessa che oggi arriva da quelle barche che attraversano il mare per approdare da noi e che da molti, troppi, è disprezzata. Oggi come allora».

Ti sei diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico e sei stato uno degli attori di Luca Ronconi, con il quale hai lavorato in ben 17 spettacoli. Qual è la lezione che ti ha lasciato?

«Partecipare alle prove di Luca Ronconi per me era più eccitante che partecipare ai suoi spettacoli.  Mi interessava il processo creativo, non il suo punto d’arrivo. Ecco perché oggi posso dire di essere stato più un testimone del suo teatro. Non mi sono mai sentito davvero un suo attore. Mi sono fatto, questo sì, strumento della sua poetica, ma nelle prove ho assistito allo sprigionamento della forza immaginifica e creatrice di uno dei più grandi uomini di Teatro del 900 europeo. Il primo giorno di prove era lui a leggere il copione e quei quattro, cinque,  diciotto, venti, trenta personaggi si sollevavano dal copione, prendendo vita dalla sua voce. Ascoltarlo e vederlo muoversi tra quelle pagine m’incantava. Il resto era l’inizio di un viaggio alla ricerca di qualche frammento di verità e di esistenza di quei personaggi che, in quel primo giorno di lettura, aveva offerto con tanta vividezza e complessità».

Dal “Riccardo III” di William Shakespeare a “La Peste” di Albert Camus, fino a “Madre Coraggio” di Bertolt Brech, hai fatto e continui a fare tanto teatro. Cosa rende il teatro diverso rispetto al cinema o alla televisione (dove quest’anno hai interpretato Togliatti in “Storia di Nilde”, dedicato alla Iotti,)?

«Cinema o teatro? Prima il cinema o il teatro? E la televisione? Non ho mai considerato la faccenda da un punto gerarchico. Sono un attore e cerco di realizzarmi attraverso questi mondi, questi linguaggi. L’esperienza in uno di essi – come accade nel processo fisico dei vasi comunicanti – illumina l’esperienza che si fa nell’altro».

Dal 2015 sei impegnato in un percorso monografico del collettivo romano Teatrodilina portando in scena sei spettacoli diversi tra cui “Le vacanze dei signori Lagonìa”: due anziani coniugi che in vacanza guardando le onde del mare srotolano i loro pensieri. In che modo i signori Lagonìa descriverebbero questa estate che deve far di conto con la pandemia?

«I signori  Lagonìa chiederebbero di non essere dimenticati, come sono stati dimenticati tanti anziani, soprattutto nelle case di riposo, dove molti di loro sono morti sotto l’aggressione del Covid, senza le cure di cui avevano diritto».

Torniamo al cinema, tra i film a cui hai partecipato figurano“Il padre d’Italia” di Fabio Mollo,“Nico 1988” di Susanna Nicchiarelli, “Made in Italy” di Luciano Ligabue e “Due piccoli italiani, regia” di Paolo Sassanelli. Film molto diversi tra loro. Qual è il tuo preferito e perché?

«La signora Lagonia direbbe: “Ferdinà fa caddu, vidimundi nu bellu filmiceddju ca ni rifriscamu” (“Ferdinà fa caldo, vediamoci un bel film che ci rinfreschiamo”, ndr). Battute a parte, ogni film è stato un nuovo respiro, un’apertura di finestra per far entrare il fresco».

Dopo il lockdown, la ripartenza ti ha visto impegnato nelle prove per uno spettacolo al teatro Argentina di Roma…

«Abbiamo finito di provare a fine luglio. Lo spettacolo sarà in stagione ad ottobre. Si chiama “Uomo senza meta” – il testo è di Arne Lygre, un drammaturgo contemporaneo norvegese – per la regia di Giacomo Bisordi con Monica Piseddu, Aldo Ottobrino, Camilla Semino Favro, Anna Chiara Colombo e me. Io interpreto un uomo che, per non ascoltare la sua sofferenza profonda, decide di costruire un’intera città e di comprarsi gli affetti, pur di avere qualcuno a fianco».

Col passare del tempo come si fa a conservare intatta la capacità di continuare a sognare?

«Non chiudendo gli occhi di fronte alla realtà. Sognare per me non è una fuga. Il sogno è un’estensione della realtà».

Le parole da bambino che ti porti ancora dietro?

«“Posso giocare con voi?”»

Nel tuo lessico sentimentale quali sono, invece, le parole irrinunciabili?

«Le parole irrinunciabili hanno odori, suoni, luci, colori, che non saprei imprigionare in un lessico. Non ancora».

Il tuo giorno perfetto?

«Un qualsiasi giorno di serenità».

E lo sguardo che non dimenticherai mai?

«Quello di una donna: cinque anni fa, in un ristorante di Bari».

Chi è Francesco Colella?

«La  domanda è profonda, sto lavorando alla risposta».


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