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August Comte (illustrazione da https://www.prometheus-studio.it/)

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Perché il terreno delle emozioni pare essere diventato una palestra di esibizione per fantomatici professionisti che si autodefiniscono coach, dopo essere stato quasi sempre un mondo riservato agli psicologi? E in realtà, si può parlare di emozioni anche in una prospettiva differente?

Proviamo a ragionare, da sociologi. In realtà, quando pensiamo alle emozioni, tendiamo ad immaginarle come qualcosa che riguardi esclusivamente la nostra sfera personale e individuale. Amore, felicità, odio: sono tutti termini che sembrano rimandare alla nostra interiorità, a qualcosa che ci appartiene ed è solo nostro. In realtà le emozioni sono fenomeni sociali almeno per due ordini diversi di motivi.

Intanto perché noi impariamo in fondo a dare un nome alle emozioni a partire dai nostri rapporti sociali. Pensiamo a quando si interagisce con dei bambini: inizialmente l’interazione – anche parlando di emozioni – avviene attraverso il linguaggio del corpo e la mimica facciale.

Solo quando si arriva all’età della parola allora quelle espressioni del viso e quei movimenti del corpo prendono il nome delle emozioni, diventando così rabbia, gioia, felicità, tristezza. Ecco quindi che la capacità di caratterizzare per mezzo di un preciso termine un’emozione è, nei fatti, una competenza sociale: intanto perché è socialmente appresa, e poi perché usandola nell’interazione con le altre persone diventa socialmente condivisa.

Il secondo ordine di motivazioni pertiene invece alle conseguenze sociali che hanno proprio le emozioni; in particolare quando diventano base collettiva per alcuni comportamenti che, in ultima analisi, cambiano sia il nostro rapporto con gli altri con i quali abbiamo interazioni sia, in senso ampio, la società stessa in cui viviamo. È il caso, per esempio, della felicità. Una sorta di chimera, qualcosa a cui si mira sempre e comunque. Felicità vo’ cercando si potrebbe dire parafrasando la celebre “libertà vo cercando” di Virgiliana memoria nel racconto a Dante relativo a Catone. La felicità sta li, bella e impossibile per tutti, e allora per raggiungerla quasi ogni mezzo è lecito; anche quello, paradossale, dell’abuso di farmaci, in un processo di medicalizzazione e conseguente farmacologizzazione della vita e, appunto, delle emozioni.

Le emozioni, insomma, sono collettive e scatenano comportamenti sociali ben definiti, aiutati in questo anche dalla comunicazione. È il caso per esempio della recente pandemia che ha colpito il mondo, con una condivisione di termini quali fiducia, speranza, paura a caratterizzare gli stati d’animo che ci hanno attraversati. Le emozioni sono insomma, a pieno titolo, veri e propri fenomeni sociali. Stabilito questo, ci si aspetterebbe quindi analisi e studi approfonditi da parte dei sociologi su questo campo di indagine veramente molto promettente e fecondo. In realtà non è così. Solo di recente infatti, qualche sociologo ha cominciato ad occuparsi in maniera sistematica di una vera e propria Sociologia delle emozioni: un tema, appunto, quasi totalmente assente da un elenco, anche allargato a dismisura, di temi sociologici classici.

Certo, in qualcuno dei padri della sociologia qualche traccia è possibile trovarla, sia pure in contesti totalmente differenti da quelli in cui ci si potrebbe attendere di trovare un concetto di questo tipo: pensiamo per esempio a Comte e Durkheim, le cui intuizioni sul ruolo delle emozioni nella riproduzione dell’azione morale e dell’ordine sociale sono intimamente legate al loro approccio alla sociologia della religione. Discorso differente invece per Norbert Elias, oggi considerato uno dei sociologi tedeschi più importanti. Solo oggi, però.

In vita Elias è rimasto pressoché sconosciuto al grande pubblico, e nonostante avesse scritto le cose migliori nel corso degli anni ’30 del secolo scorso, vide la sua carriera accademica cominciare molto tardi, nel 1954 all’età di 57 anni all’Università di Leicester, per poi proseguire in Ghana prima e in Germania in seguito. L’opera principale di Elias resta in ogni caso “Il processo di civilizzazione” uscito per la prima volta in Germania nel ’39 e tradotto in inglese solo nel ’62. Negli studi del sociologo tedesco sul processo di civilizzazione si trovano infatti tracce di una teoria delle emozioni e dei sentimenti come costruzioni sociali.

Per Elias infatti – ed è la prima volta che un sociologo di fama ne parli in maniera così particolareggiata – le emozioni e le loro forme espressive sono fortemente correlate ai contesti sociali in cui nascono e si manifestano. Le emozioni hanno una loro storia che non può essere separata da quella della stratificazione sociale, delle organizzazioni sociali, della diversa distribuzione del potere. A ogni struttura sociale corrisponde quindi una struttura delle emozioni e dei sentimenti; la loro inibizione, repressione o libera espressione dipende dalla loro funzionalità proprio rispetto ai differenti sistemi sociali. La grande intuizione di Elias è stata di ancorare saldamente lo studio delle emozioni a quello della struttura e stratificazione sociale e di spiegare come non solo società diverse producono diverse emozioni, ma anche come classi sociali diverse generano emozioni ed espressioni emozionali che possono essere anche molto differenti tra loro. Esempi di grande rilevanza, in tal senso, sono per esempio quelli brillantemente riportati: il senso del pudore, della vergogna e della ripugnanza.

Va detto anche che per Elias lo studio e l’approfondimento del sistema di emozioni non è fine a se stesso, anzi. È calato perfettamente in un quadro di azione e attori sociali centrale, tanto da fargli dire: “Da tempo è saldamente radicata nella coscienza degli uomini l’idea che la «psiche», ossia l’economia psichica, si componga di differenti zone che funzionano indipendentemente le une dalle altre e che come tali debbano quindi essere esplorate. […] Così la ricerca storico-concettuale e quella sociologica della conoscenza cercano di esplorare l’uomo partendo innanzitutto dalla conoscenza e dal pensiero. […] Ma ogni tipo di ricerca che prende in considerazione soltanto la coscienza degli uomini, la loro «ratio» o le loro «idee», e non tiene conto altresì della struttura delle pulsioni e dell’orientamento e conformazione delle emozioni e passioni umane, è destinato a priori a essere poco fruttuoso”.

Ha ragione da vendere. Avrebbero dovuto capirlo anche coloro i quali hanno perseguito nella semplicistica considerazione della sociologia come “fisica sociale” un percorso scientifico che non ha potuto avvalersi del formidabile approccio di quella parte di metodi chiamati, non a caso, “non standard”. Lo avessero capito, forse la sociologia avrebbe avuto un ruolo ancora più importante nel processo di interpretazione dei comportamenti collettivi. E per restare al presente, basti pensare a come diversi modelli di società – con differenti sistemi di valori alla base delle stesse – hanno reagito a quell’enorme situazione sociale che ha rappresentato (e rappresenta ancora) la sindemia Covid19. A come emozioni differenti siano state alla base delle scelte governative di contrasto al contagio, di comportamenti collettivi, di scelte individuali. Anche le emozioni, insomma, sono culturalmente determinate.


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