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NE IL RACCONTO dell’ancella, romanzo distopico della scrittrice Margareth Atwood che esce nel 1985, i moderni Stati Uniti d’America, in piena crisi ambientale che causa infertilità portando quasi a zero le nascite, diventano una teocrazia totalitaria nella quale le donne sono ridotte a oggetto di proprietà degli uomini. In seguito al colpo di Stato, le poche donne fertili perdono lo status di “donne libere” e diventano “funzionali” solo alla riproduzione biologica. Addirittura le donne di coloro che sono al potere, le mogli dei comandanti, non possono ricoprire cariche politiche né essere autonome e indipendenti.

Si tratta di letteratura distopica, certo, che fa pensare a tempi lontani, quando “essere liberi” significava “essere maschi e borghesi”. Un mondo patriarcale e autoritario, nel quale la sfera dei diritti politici e civili non è accessibile a tutti, soprattutto alle donne. Ma, va detto, la concezione di individuo dell’età moderna, non tiene conto completamente della condizione femminile. Autonomia e proprietà (della propria persona e di beni) sono le condizioni che definiscono gli individui nelle società libere, e “proprietari e indipendenti” sono soprattutto gli uomini.

Gli Stati moderni faticano a includere le donne nel processo di modernizzazione della società, anzi spesso esse rappresentano “l’ancoraggio” ai valori tradizionali contro la paura del mutamento sociale. E infatti, la questione del “riconoscimento politico” delle donne in Italia non si chiude affatto con il diritto di voto che solo 75 anni fa viene riconosciuto, tra l’altro con ritardo rispetto alla gran parte dei paesi europei. Quel 2 giugno del 1946 in Italia le donne votano per la prima volta con gli uomini, che non votavano anch’essi da tempo perché durante la dittatura fascista non ci furono elezioni.

Per circa 2 milioni di voti, non tantissimo, la scelta della repubblica sulla monarchia. Si votò anche per l’Assemblea Costituente, 21 donne vennero elette e di queste alcune fecero carriera politica. Fu senza dubbio un traguardo importante. Si veniva fuori dal dramma della seconda guerra mondiale e dal disastro del fascismo che aveva rafforzato l’immaginario patriarcale che relegava la donna a custode della casa e della famiglia con il ruolo unico di procreare, occuparsi dei figli e servire l’uomo. Poche possibilità di lavoro, se non nei lavori “di cura” che più si confacevano alla “naturale” propensione femminile. Anche ai tempi dell’Italia liberale la donna si trovava in condizione di subalternità rispetto all’uomo ma il fascismo riuscì ad annichilire totalmente il desiderio di emancipazione. Dunque, con il diritto di voto nel dopoguerra non si trattò tanto di riconquistare qualcosa quanto piuttosto di affermare ciò che in passato non c’era stato. Tuttavia l’ottenimento del diritto di voto non fu vero e proprio riconoscimento politico, non rappresentò in tutto “l’ingresso” delle donne nel mondo democratico e moderno.

L’ottenimento della cittadinanza politica – intesa come piena realizzazione dei diritti civili, politici, sociali che non si esaurisce con la sola partecipazione al voto – è un processo lungo, conflittuale, che va compreso nel quadro articolato delle trasformazioni sociali che investono l’Italia per certi versi ancora legata a strutture familiari tradizionali anche in piena modernizzazione e crescita economica. Ancora dopo l’ottenimento del diritto di voto le donne sono in condizioni di “minorità”; non sempre ricevono lo stesso trattamento degli uomini sul lavoro (quando hanno accesso a posizioni lavorative almeno equiparabili a quelle degli uomini) e sono in posizione subalterna in famiglia nei confronti di padri e fratelli. Inoltre, questione di non poco conto, non entrano appieno nella sfera della politica che, in quanto spazio di potere, non può che essere soprattutto maschile.

Anche se i primi movimenti femminili che hanno rivendicato il suffragio sono stati importanti, e anche se le donne hanno avuto un ruolo rilevante nella liberazione dal nazifascismo, fino agli anni sessanta non cambia molto nell’immaginario collettivo, dove la divisione tra i sessi riproduce la divisone sociale dei ruoli basata sulla disuguaglianza. Il ’68 stesso, che fu un momento di grande coinvolgimento dei giovani, ragazzi e ragazze, fu segnato dalla cifra del “maschile” di cui la società italiana era pregna. I movimenti studenteschi però furono uno spazio importante di ripensamento delle categorie tradizionali e soprattutto di rottura verso quelle prescrizioni autoritarie connaturate nelle istituzioni della società, nella scuola, in famiglia, nelle università. La contestazione e la questione della liberazione dall’autorità assunsero un significato particolare per le donne in termini di legittimazione della propria presenza nella società.

È importante ribadire che il vero cambiamento non può che avvenire con la partecipazione attiva, politica, con le rivendicazioni nello spazio pubblico della città, nelle piazze, nei movimenti sociali. È in questo modo, negli anni settanta, che i diritti vengono realmente guadagnati dalle donne e il “riconoscimento politico” perde il carattere della semplice elargizione. L’emancipazione politica può rappresentare talvolta una mera concessione di diritti e di libertà ai cittadini e non essere vera liberazione, lo scriveva Karl Marx nella fase giovanile, se le sopravvivenze culturali continuano ad alimentare le disuguaglianze di status.

Il suffragio universale femminile ha rappresentato senza dubbio una tappa importante ma l’emancipazione si traduce in riconoscimento politico quando scuote con forza o addirittura scardina l’apparato ideologico. Così il riconoscimento diventa riconoscimento della dignità della persona nella sua integrità politica (e quindi collettiva) che si afferma nello spazio pubblico.

Nel descrivere una passeggiata immaginaria in un college inglese, luogo maschile per eccellenza, scriveva Virginia Wolf  nel saggio Una stanza tutta per sé: “Qui c’era il prato, più in là il vialetto. Soltanto ai membri del College e agli Studiosi è consentito poggiare i piedi qui; il mio posto è la ghiaia”. Ecco, l’emancipazione femminile ha aperto la via per l’occupazione del “prato”. 


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