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Luigi Pellegrino Scaramuccia, detto Perugino, “Federico Borromeo visita il lazzaretto durante la peste del 1630 (1670 circa)

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Rileggere la descrizione che Alessandro Manzoni fa ne I promessi sposi, della pestilenza che intorno al 1630 colpì la città di Milano, fa un certo effetto ai tempi del coronavirus.

Ho sempre sostenuto, fin da quando lo lessi e me ne innamorai sui banchi del liceo, che il romanzo per eccellenza della letteratura italiana contenga la risposta a qualunque domanda possibile sulla vita e le sue mirabolanti esperienze, e sia lo specchio più completo e sincero della natura umana, che evidentemente il suo autore ha conosciuto e rappresentato come nessun altro è mai riuscito a fare.

Proverò qui a spiegarvi cosa intendo, ripercorrendo indegnamente il racconto del Maestro: Manzoni aveva già scritto tutto. Ma ai tempi del panico e dell’isteria generale, dei supermercati presi d’assalto, delle sassaiole contro i possibili contagiati, delle fughe dalle zone del contenimento dei possibili esposti al virus, è d’obbligo una precisazione: lungi da me paragonare le proprietà, gli effetti, la virulenza e la mortalità delle due malattie, la peste e la COVID-19. Non ne ho l’intenzione, né tanto meno le capacità.

Negli ultimi capitoli del libro, una lunga digressione storica, in perfetto stile manzoniano, rievoca l’epidemia che tra la fine del 1629 e l’inizio del 1630 cominciò a dilagare nel nord Italia, in particolare nella zona intorno a Milano. Notate qualche somiglianza geografica e temporale con i giorni nostri? Non fatevi suggestionare, vale la pena di proseguire nel racconto.

Anche allora il contagio in Lombardia arrivò da fuori: venne portato dai lanzichenecchi, di passaggio per raggiungere Mantova. I soldati delle fanterie mercenarie tedesche erano coinvolti nella guerra di successione del ducato, che vedeva contrapposte Spagna e Francia, e oltre a saccheggi e devastazioni, lungo il percorso seminarono la peste.

Le autorità sanitarie di Milano nutrivano forti timori che il passaggio delle soldatesche potesse diffondere la malattia, perciò rappresentarono al governatore milanese il rischio incombente sulla città, chiedendo provvedimenti di prevenzione. La risposta fu sorda e cieca: “le esigenze belliche sono imprescindibili, confidiamo nella Provvidenza”. Tipo, “sospendiamo i voli diretti dalla Cina e rimettiamoci a Dio per chi arriva in Italia facendo scalo in altri paesi”.

Ma torniamo al Manzoni. Mentre la peste si diffondeva nel territorio di Lecco e nel Bergamasco, il Tribunale di Sanità propose di stringere un cordone di sicurezza intorno alla città di Milano, per impedire l’ingresso alle popolazioni già colpite. Ma niente da fare. Anzi, vennero celebrate pubbliche feste in tutta l’area a rischio, per onorare la nascita del primogenito di Filippo IV, il re di Spagna, senza alcun timore che il concorso di folla nelle strade potesse facilitare la diffusione del morbo.

Quando ormai era troppo tardi, iniziò la caccia al soldato che entrando a Milano con un fagotto di vesti comprate dai fanti tedeschi, aveva contribuito a diffondervi il mortale contagio. Spirò tre giorni dopo l’arrivo in città. Tutte le sue suppellettili vennero bruciate e internate al lazzaretto le persone che erano entrate in contatto con lui.

Le autorità, comunque, non erano più di tanto allarmate, e i festeggiamenti per il carnevale proseguirono. A preoccupare le persone era soprattutto il rischio di finire confinate in quarantena. Dunque, meglio nascondere i malati e coprire i decessi; meglio accusare i medici di diffondere voci infondate per dare lavoro alla sanità.

Dal mese di marzo del 1630 la peste cominciò a mietere vittime in ogni angolo di Milano, rendendo drammatica evidenza ciò che fino a quel momento era stato negato o sminuito. A fine maggio si cominciarono a contare più di 40 nuovi casi al giorno. Le gride a quel punto proibirono di lasciare la città, minacciando pene severissime per chi avesse disubbidito.

Quando ormai non serviva più a prevenire la crisi, ma solo ad esasperare una situazione già molto critica, si diffuse il panico generale. Con esso arrivarono le dicerie senza senso, eppure impossibili da fermare: sono alcuni uomini a propagare la peste, spargendo appositi unguenti venefici.

Nella Storia della colonna infame, pubblicata in appendice al romanzo, Manzoni ricostruisce le vicende giudiziarie che coinvolsero due uomini, che vennero accusati di essere untori e condannati a morte, dopo che le loro confessioni erano state estorte con la tortura. Per fortuna, ai tempi nostri esiste una prova scientifica per dimostrare se si è o si è stati infetti e, dunque, possibili trasmettitori del virus. Basta attendere l’esito di un tampone, ma nel frattempo le dicerie non perdonano. Avete presente quelle sul fantomatico paziente zero, che poi si è rivelato sano come un pesce?

Il continuo aumento dei decessi e l’infuriare del morbo spinsero alcuni amministratori cittadini a chiedere al cardinale Borromeo l’autorizzazione a svolgere una solenne processione per le strade, in cui fosse esposto il corpo venerato di San Carlo e si invocasse il soccorso divino per porre un freno alla terribile calamità.

La processione venne indetta per l’11 giugno, partendo dal duomo cittadino. Attraversò tutti i quartieri della città, radunando una folla incredibile. Sin dal giorno successivo i decessi causati dal morbo crebbero in maniera vertiginosa. Evidentemente attraverso i contatti tra le persone radunatesi in strada, i contagi si erano moltiplicati. Ancora una volta la colpa fu attribuita all’azione degli untori, mescolatisi nel corteo in processione. Mi raccomando, in caso di epidemia, evitate i luoghi affollati. Dunque, tutti in coda nei supermercati a fare razzie.

Nell’estate del 1630 la situazione a Milano divenne insostenibile. Il numero di decessi giornalieri arrivò a 500. Mentre i frati si prodigavano per portare assistenza ai malati e supplire alle mancanze delle autorità cittadine nel far fronte all’emergenza, ci fu anche l’esempio molto meno edificante di chi cercò di trarre vantaggio dalla catastrofe.
I monatti, gli addetti a raccogliere i cadaveri e i moribondi lungo le strade per portarli al lazzaretto, usarono il loro potere per derubare gli ammalati o minacciarne le famiglie per estorcere loro del denaro. Vi ricordano per caso quelli che oggi speculano sul prezzo dei disinfettanti o che si fingono incaricati dalle Asl a fare tamponi a domicilio per truffare gli anziani?

Qualcuno arrivò persino a travestirsi da monatto, attaccandosi un campanello al piede, approfittandone per compiere ogni sorta di ruberie. Il racconto di Manzoni si fa da storico a paradigmatico: come una parabola evangelica.

A dimostrare il disfacimento del tessuto sociale a cui si giunse in città verso la fine di quella tremenda estate.

A sottolineare l’incuria e la negligenza dimostrate dalle autorità milanesi nel sottovalutare il rischio del contagio e poi nel tacere e minimizzare la pestilenza quando ormai era in corso.

Manzoni aveva già scritto tutto. Manzoni sapeva già tutto. Sapeva soprattutto che gli esseri umani sono deboli, irrazionali, ignoranti, ostili gli uni agli altri. Che, neanche a dirlo, la stupidità fa più vittime del morbo. Nel 1630 come nel 2020.

Quella di chi è convinto di saperla più lunga di medici, esperti, virologi. Quella di chi antepone alle drastiche misure di prevenzione, esigenze economiche, lavorative, di svago, di libertà. Quella di chi esorcizza le proprie paure andando alla forsennata ricerca di un untore da incolpare. Quella di chi sottovaluta i rischi. Di chi sopravvaluta le conseguenze, alimentando il panico. Di chi se ne frega degli altri e in barba a qualunque recondito, infinitesimale barlume di solidarietà umana, non adotta misure di quarantena volontaria pur sapendo di essere tra coloro che sono stati esposti.

Bastano 14 giorni. Usateli per rileggere Manzoni.


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