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Marilyn Monroe legge Joyce

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9 minuti per la lettura

«UNA delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall’isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare», ha scritto Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate.

È questa la profonda solitudine che emana dal dipinto di Gioacchino Toma, Il romanzo in convento. Una solitudine spalmata sulle tonache bianche delle due monache, sui muri grigi, sulla luce lattiginosa che filtra dalla finestra spalancata ma bloccata dalle grate, sul buio annidato nel pavimento, negli angoli della stanza, nei mobili di legno scuro.

In questa stanza allagata dalla solitudine una monaca è piegata su un libro aperto, la mano sulla fronte, a proteggere la propria concentrazione dalla curiosità della compagna che ha interrotto il lavoro al telaio per sporgersi verso le pagine, a leggere anche lei. Il libro sembra l’unica ancora di salvezza dalla triste realtà: i corpi delle monache sono lì, la loro mente è volata altrove, nel mondo evocato dalla storia che stanno leggendo.

Toma, nato nel 1836 a Galatina (Lecce), conosceva bene i conventi: vi aveva trascorso un’infanzia infelice, quando era rimasto orfano. E conosceva l’usanza di recludervi le ragazze prima del matrimonio, perché venissero educate all’obbedienza verso un marito scelto e imposto dalla famiglia, e a una vita dedicata a partorire bambini, a crescerli, a cucinare, a pregare. Nel tempo libero potevano ricamare.

Negli stessi anni, Federico Faruffini dipingeva una lettrice di tutt’altro genere: seduta su un divano rosso, le spalle rivolte allo spettatore, il viso che si intravede appena di profilo, un braccio oltre lo schienale con la sigaretta accesa tenuta distrattamente tra le dita, una completa indifferenza verso lo spettatore, l’interesse rivolto unicamente e spavaldamente alla lettura. Altri libri sono ammucchiati sul tavolo di fronte, insieme a una viola mammola nel bicchiere. Faruffini, che a trentasei anni si tolse la vita con il veleno, dopo aver messo in ballottaggio nel cappello due foglietti con la scritta «vita» e «morte», fu uno dei pochissimi a dipingere, nel 1864, il ritratto di una donna completamente emancipata.

Trent’anni più tardi fu il livornese Vittorio Corcos, a raffigurare un’altra giovane indipendente e spregiudicata, che ancora oggi seduce gli spettatori. Si chiamava Elena Vecchi, era figlia di un ufficiale di marina, scrittore di storie marinare con lo pseudonimo di Jack La Bolina.

Corcos la ritrasse con le gambe accavallate, i capelli arruffati, le labbra grintose, gli occhi sensuali e sfrontati, sottolineati da virgole d’ombra. Una donna che se ne andava a zonzo da sola per la città e si sedeva su una panchina, tutta immersa nei propri pensieri. Accanto a sé aveva posato il cappello di paglia, una rosa sfiorita, l’ombrellino bianco e tre libri dalla copertina gialla. Sui titoli di questi libri, si sono esercitate almeno quattro generazioni di studiosi, convinti che nelle pagine ci fosse l’origine di tanta impudenza. I più informati sui gusti e le frequentazioni di Corcos scrissero che almeno uno doveva essere Les demi-vierges di Marcel Prevost, il romanzo che profumava di scandalo e che era uscito solo due anni prima. Anche il ritratto suscitò «un chiasso indiavolato», come riferì il critico fiorentino Enrico Montecorboli. E il critico Vittorio Pica si domandava quali «caldi desideri e torbidi pensieri» si nascondessero dietro la posa disinvolta della ragazza. Il quadro si intitolava Sogni. E quei sogni erano evidentemente nutriti dai tre libri sulla panchina.

«Le donne che leggono sono pericolose», recitava il volume di Stefan Bollmann ed Elke Heidenreich, pubblicato una quindicina di anni fa da Rizzoli. Sono pericolose perché nei libri trovano una via di fuga dalla reclusione tra le mura domestiche verso il mondo sconfinato del pensiero e della fantasia. Perché i libri in sé sono pericolosi: contengono il sapere e lo trasmettono. Sui roghi dell’Inquisizione furono soprattutto donne e libri a finire in cenere. E nei regimi totalitari si bruciano i libri e si condannano i cittadini che leggono.

Perché chi legge riflette, chi riflette si fa un’opinione, chi ha un’opinione non si fa indottrinare dai dittatori o dai politici di turno, e la sua libertà può diventare una minaccia. In Fahrenheit 451, il racconto di fantascienza di Ray Bradbury, chi possiede dei libri o li legge è il nemico pubblico numero uno, e insieme ai libri viene bruciato dai pompieri, che hanno cambiato mestiere, invece di spegnere i fuochi li appiccano: «Un libro, nella casa del tuo vicino, è un fucile carico. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo».

La mente delle donne è stata castrata per secoli. L’irlandese Lady Morgan, una delle poche donne che nella prima metà dell’Ottocento si avventurò nel Grand Tour, e raccontò poi il viaggio in un volume intitolato Italy, si stupì che le italiane, da buone cattoliche, per leggere un libro che non fosse il messale o un testo sacro erano obbligate a ottenere il permesso dal sacerdote. E quelle che si sentivano irresistibilmente attratte dalla lettura erano costrette a nascondere i volumi sotto il guanciale. Oppure tra i panni da cucire e da rammendare, come si vede in un altro quadro di Toma, intitolato La lettura: rimasta sola per qualche minuto, o qualche ora, la donna ha estratto il libro dal mucchio di panni sul tavolino, ed è evasa in un altro mondo. Forse nessuno in famiglia ha mai saputo di queste sue letture furtive. Coltivare la conoscenza era quasi un peccato mortale. Così i preti intimorivano e dissuadevano le aspiranti lettrici. Fu anche per le sue critiche violente alla politica oscurantista di molti stati italiani che Italy fu messo all’indice nel regno di Sardegna, nel Lombardo-Veneto, nello Stato Pontificio, e venne sequestrato dagli sbirri nelle rare rivendite di libri e di gazzette.

Tuttavia era sempre più difficile tenere le donne lontane dalla lettura. Fino ad allora gli unici volumi transitati nelle mani femminili erano quelli di preghiera e di devozione. Nelle Annunciazioni dipinte dagli artisti del Quattrocento c’è sempre l’immagine della Vergine sorpresa dall’angelo davanti a un libro aperto. E sul libro sono ben leggibili le parole della preghiera, quasi a fugare ogni dubbio sul contenuto delle pagine. In genere si tratta di brani del Magnificat, come nell’Annunciata di Antonello da Messina o nella Madonna del Magnificat di Botticelli. Ma l’immagine più commovente è quella della cosiddetta Madonna di casa Santi, perché ritrovata a Urbino in un affresco sulle pareti della casa di Giovanni Santi padre di Raffaello. L’opera è stata attribuita a un Raffaello appena quindicenne. E forse non si tratta di una Madonna, perché non c’è traccia di aureola. Forse il pittore volle raffigurare un ritratto idealizzato della madre, morta quando lui era ancora piccolo. Un ritratto pieno di tenerezza: il bambino, sulle ginocchia della mamma, si è addormentato nelle carezze delle sue mani; lei approfitta di questa pausa di sonno, come fanno molte madri, per dedicarsi alla lettura. Le labbra semiaperte fanno supporre che legga ad alta voce, secondo l’usanza di allora.

La diffusione su larga scala dei libri stampati, e della lettura silenziosa, avvenne nell’Ottocento. Diffusione spesso favorita dalle prime biblioteche circolanti, dove si potevano chiedere i libri in prestito, perché acquistarne uno costava quanto la provvista di alimenti di una famiglia per due settimane.

Fu in questo periodo che cominciarono ad apparire nei dipinti le donne che leggevano libri non sacri. Leggevano sedute in poltrona, sul divano, su una sedia col libro appoggiato al tavolo, su una panchina in giardino. Leggevano in piedi davanti a una finestra, sdraiate sull’erba del prato. Leggevano a letto, sopra o sotto le coltri, vestite e anche nude. «Aggattate tra i soffici piumini», le descrisse Mario Praz, convinto che le «orge di letture giacenti» fossero una specialità delle donne. Gli uomini si facevano ritrarre nel loro studio. Le donne non avevano una stanza tutta per sé. Non avevano biblioteche. Non c’erano, per le donne, neppure studioli come quelli che già quattro secoli prima avevano ospitato i vari san Gerolamo e i sant’Agostino, circondati da libri disposti bene in ordine sugli scaffali.

C’era, nell’Ottocento, un altro timore, questa volta laico: che la cultura facesse perdere la femminilità. Così le donne colte spesso assumevano intenzionalmente un’aria da oche. Cento anni dopo, vedendo Marilyn Monroe, biondo simbolo di femminilità del Novecento, fotografata mentre leggeva Ulisse di Joyce, il romanzo più difficile e innovativo dell’epoca, tutti credettero che l’attrice, senza averlo mai letto, avesse esibito il capolavoro dello scrittore irlandese per ricostruirsi un’immagine di donna pensante, da opporre alla stupida che impersonava nei film. Ma l’immagine appariva poco credibile, anche perché Marilyn era in costume da bagno, appollaiata su una giostra. La domanda «lo ha letto o no?», continuò ad aleggiare per un trentina di anni. Finché il professore di letteratura Richard Brown, per scoprire com’era andata, scrisse a Eve Arnold, la fotografa che aveva ritratto Marilyn con il libro di Joyce. Ed Eve raccontò che stavano lavorando a un servizio sulla spiaggia di Long Island, e che Marilyn leggeva Ulisse negli intervalli in cui lei caricava la pellicola. Marilyn le aveva detto che lo stava leggendo da molto tempo, a voce alta, perché le piaceva il suono delle parole, e perché in questo modo era più facile dar loro un senso. Aveva detto che faceva fatica ad andare avanti, perché non aveva il tempo di leggerlo in modo continuativo. Lo apriva di tanto in tanto, in punti diversi, e leggeva qualche pagina. Lo teneva in macchina, in modo da averlo sempre a portata di mano nei suoi spostamenti, per aprirlo nelle pause di lavoro.

Chissà se Marilyn sapeva che tanti intellettuali si erano arresi davanti alle difficoltà della monumentale opera di Joyce, che persino Virginia Woolf si era arenata dopo duecento pagine. Mai avrebbe immaginato che oggi, tra i consigli su come affrontare il racconto della lunga giornata di Leopold Bloom, c’è proprio quello di lasciar perdere il celebre flusso di coscienza e leggere brani qua e là. Esiste anche un podcast radiofonico curato da Frank Delaney, romanziere e giornalista del New York Times, che ha creato trecento puntate di un programma di grande successo leggendo ogni settimana per sei anni, dal 2000 al 2016, un frammento del romanzo.


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