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La copertina del libro

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AL PROFESSOR Flesherman, criminologo di fama, viene diagnosticata una forma incipiente di demenza senile che, secondo gli specialisti, sfocerà progressivamente nel morbo di Alzheimer. A Berlino – dove si reca invitato da un collega dopo il ritrovamento di un cadavere che potrebbe essere quello di Rosa Luxemburg – Flesherman viene a conoscenza della scomparsa di un noto scrittore che si chiama Hagenbach. Cercarlo, per il criminologo diventa via via una necessità improcrastinabile. Un’ossessione. Anche le lettere che Hagenbach scrive alla moglie Dora – affetta da Alzheimer in stato ultimativo – giocheranno un ruolo chiave nella vita di Flesherman…

È questa in sintesi la trama di “Lettere alla moglie di Hagenbach”, ultimo romanzo di Giuseppe Aloe edito da Rubbettino. Presentato da Corrado Calabrò, il romanzo è stato inserito tra i 62 titoli proposti dagli Amici della Domenica per l’edizione 2021 del Premio Strega.

Il libro – che ha ricevuto apprezzamenti da critica e pubblico, aggiudicandosi diversi riconoscimenti tra cui il Rhegium Julii 2020 – è stato definito da Calabrò “un noir psicologico, un romanzo all’inseguimento del sé, scritto con un linguaggio con tensione poetica”.

Di “Lettere alla moglie di Hagenbach” e non solo parliamo con l’autore.

Aloe, chi è il professor Flesherman e come nasce questo personaggio da cui prende avvio la vicenda?

«Flesherman è l’uomo che sta perdendo se stesso. Nel suo caso si tratta di una malattia che lo sta allontanando dai suoi pensieri, in generale, però, è come se fosse un avamposto dell’umanità, nella quale la separazione fra la propria conoscenza, i propri pensieri, e la vita, è sempre più evidente».

E perché proprio il  cadavere  di Rosa Luxemburg?

«Rosa Luxemburg è la grande sconfitta della storia. La donna sconfitta con l’estrema violenza. Ma il suo coraggio, la giustizia che portava nelle sue idee, nelle sue battaglie, sono valide ancora oggi. La sua fine ha rappresentato la fine del movimento spartachista che si era sviluppato durante la Repubblica di Weimar. Ma nel senso più umano, diciamo che il ritrovamento del cadavere di una persona che potrebbe essere Rosa, denuncia la storia come beffa. La storia è una beffa. Tanti sono andati sulla tomba di Rosa, ma lì, in quel loculo lei non c’era. La storia si fa beffe dei giusti e degli ingiusti».

Cercare Hagenbach per il professor Flesherman  diventa una necessità e le lettere che questi scrive alla moglie Dora, gli sembrano pensate e scritte anche per lui. Da qui l’ossessione di mettersi sulle tracce di Hagenbach… Si potrebbe dire che Flesherman cerca se stesso  inseguendo l’ombra di un altro?

«Flesherman cerca di evitare la fine di Dora muovendosi. Andando da una parte all’altra, viaggiando. Sa che quella donna è il suo destino e cerca di allontanarsene».

L’ossessione di Flesherman, la perdita di se stessi, una malattia subdola come l’Alzheimer, le lettere di Dora sono tasselli di un affresco che si tinge di giallo, forse è per questo che il romanzo è stato definito una vera e propria detective story?

«Non lo so, sinceramente. Cercare una persona scomparsa è in effetti una vicenda che ha risvolti da detective story. E devo dire a me non dispiace per nulla, anzi, mi spinge a scrivere in modo continuo, in una sorta di velocità che corrisponde alla velocità della lettura, nella speranza che i personaggi e le situazioni rimangano fermi nell’immaginazione di chi legge».

Torniamo a Dora, che donna è?

«È una donna ironica, intelligente, una che sa capire le cose e agisce di conseguenza. Dora è una donna profondamente libera».

“Lettere alla moglie di Hagenbach”  è una nuova scommessa letteraria allo Strega. Non è però la sua prima volta: nel 2012 infatti è stato tra i finalisti con “La logica del desiderio”. Sono trascorsi dunque alcuni anni, un tempo utile per i bilanci: a voler fare un confronto tra quel romanzo e l’ultimo come è cambiato, se è cambiato  il suo approccio alla scrittura e cosa, invece, è diverso nella vita di Aloe fuori dai romanzi?

«L’idea del romanzo, per quanto mi riguarda, rimane sempre la stessa. Non è cambiata di un centimetro. I miei romanzi trattano di quella striscia quasi invisibile che separa gli uomini dalla follia. Nient’altro. Perché mi sembra che arrivati in quel luogo di transito, di confine, l’uomo sia molto più autentico rispetto alla vita socializzata in cui deve esercitare le sue malizie, le sue aggressioni, le sue pose, le sue trappole. In questo limite, invece, c’è l’evocazione di ciò che siamo veramente. Di questo parlano i miei romanzi. Per quanto riguarda la vita fuori dai romanzi: cambia ben poco. La mia è una vita abbastanza laterale. E va bene così».

Sei i romanzi  scritti da lei fin qui, da cosa nasce l’urgenza di scrivere? C’è chi parla di demone della scrittura?

«Non c’è urgenza, c’è attesa. Io aspetto che il romanzo cresca e quando è maturo lo scrivo. L’urgenza è una caratteristica del mondo che non può fare a meno di correre, molto spesso dietro al niente. Io aspetto. Scrivo romanzi mentali. Molti li lascio evaporare, altri li metto giù».

Le parole della sua infanzia che ancora usa nel quotidiano?

«Uso il riverbero dell’infanzia, quel grande inganno che ci ha ammaliato tutti, che ci ha dato l’idea che le cose della vita fossero così grandi che non potessero riguardare. Io rimango lì dentro. Mi muovo come un ragazzo che non ha il senso del mondo».

E quali quelle a cui non rinuncerebbe mai e perché?

«Non rinuncio all’idea di essere stato quello che sono stato. Ma a Cosenza. Se fossi nato in un altro luogo le cose sarebbero andate diversamente. Nella mia città il senso dello splendore e del dolore camminano insieme, come due persone anziane che si sorreggono l’un l’altro».

Davanti al foglio bianco le capita di perdersi o di ritrovarsi?

«Davanti al foglio bianco non ho nessuna indecisione. Ho già scritto il romanzo in testa. Mi basta buttarlo giù».

I punti di domanda sono finiti, per chiudere il cerchio però non resta che tornare all’incipit con uno stralcio da “Lettere alla moglie di Hagenbach”: “Era così nascosto, Hagenbach nella sua scrittura, così lontano da quello che stavi leggendo, che, naturalmente, iniziavi a pensare che dietro a quei racconti, in effetti non ci fosse nessuno. Che si fossero composti, come dire, da soli. Era remoto, ma nel contempo, in determinate circostanze, ecco che appariva. Faceva segno. Specialmente quando la vicenda diventava più tenebrosa. Arrivava l’autore, si materializzava sulla pagina. Come un’esplosione nel cuore di una città”. Un’esplosione, già!


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