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Enzo Striano

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Ci sono libri che colgono lo spirito di un popolo, libri che vanno al cuore di un periodo della vita, come la gioventù, o di una particolare disposizione dell’animo che fiorisce nei momenti estremi. Ci sono libri in cui lo scrittore riesce a incarnarsi nel suo personaggio in misura talmente profonda che pare l’uno sia nato con l’altro e non possano aver vissuto in tempi disgiunti e lontani. C’è un libro che per me risponde di ognuna di queste definizioni.

È un libro spesso citato, molto più spesso dimenticato, come il suo autore che paga in vita e in morte lo scotto di non essere mai pienamente entrato nel sistema editoriale, qualunque cosa voglia dire. Il libro è Il resto di niente, l’autore Enzo Striano.

Enzo Striano è nato e morto a Napoli, nel mezzo ha vissuto sessant’anni, scritto alcuni saggi, libri scolastici, racconti, e poi romanzi. Gran parte della sua opera ancora oggi rimane inedita o mai ripubblicata. Il resto di niente però continua a vivere nelle librerie e, dall’anno della sua pubblicazione, il 1986, fa quello che alla letteratura riesce meglio: resiste.

La rivoluzione illuminista napoletana venne definitivamente stroncata nel 1799. A farla, uno sparuto gruppo di intellettuali idealisti, appartenenti per lo più all’alta borghesia napoletana, che troveranno quasi tutti la morte. Sono uomini bambini, come li chiama Striano nel libro, “generosi e sciocchi come Dio”, di una gioventù estrema, commovente. “Si costruiscono in testa le immagini orgogliose d’un mondo, s’incapricciano a dargli vita: appagano, in ciò, brame d’infinito amore?”

Eleonora Pimentel Fonseca è la protagonista del libro e una figura storica che realmente ha vissuto e realmente ha sofferto, desiderato e agito nella Napoli di fine XVIII secolo.

Il personaggio di Striano è una adolescente, prima, e poi una donna vivida e viva in modo stupefacente, nella lucidità del suo pensiero e nella potenza del suo sentimento, nell’amore per il caffè nero e nelle rabbie, lotte, debolezze e ripensamenti di un’esistenza da poetessa, rigorosa giornalista d’inchiesta, rivoluzionaria, condannata a morte.

La repubblica napoletana è stata un fallimento atroce. Atroci sono state soprattutto le sue conseguenze che hanno aperto una lacerazione nella storia e nell’animo di tutti gli esseri umani coinvolti, in cui ognuno ha dovuto fronteggiare il proprio inferno. I rivoluzionari inseguiti, fatti a pezzi, imprigionati o impiccati. I lazzari che si sollevarono in armi, aizzati dalla monarchia e dal clero, e uccisero, scempiarono, divorarono le carni di quegli uomini e donne che avevano cercato di conquistare loro libertà e democrazia. “Una curiosa storia patria, buia e irrazionale, barbarica, – Scrive La Capria in L’armonia perduta – in cui la plebe restituì il potere ai suoi reali oppressori e fece letteralmente a pezzi quel pugno di idealisti che le parlava di libertà.” “«A Napoli la rivoluzione pochi la capiscono, pochissimi l’approvano, quasi nessuno la desidera»”, dice uno degli intellettuali napoletani protagonisti del libro.

“E Pagano aggiunse che incuteva paura proprio perché nessuno la capiva: incomprensibile, diventata mito. «Più che mito, moda» ribatté Cuoco. […] «E poi, non è incomprensibile» proseguì, torvo, in una girandola di tic. «L’idiozia dei nobili, del re, in Francia non poteva non scatenarla. È più idiota voler far lo stesso in condizioni diverse: le rivoluzioni non s’esportano»”.

Eleonora conserva fin sul patibolo il suo spirito insieme critico e generoso. Nel suo giornale ha saputo prendere le distanze dagli alleati francesi, che portavano truppe e armi, ma anche corruzioni e soprusi. Ma sugli altri rivoluzionari, soprattutto i più giovani, ha uno sguardo materno, sofferente e disilluso: “Quali sono le motivazioni dei ragazzi? – Si chiede a un certo punto – Perché un giovinetto intelligente, di famiglia agiata, lasciato solo e libero a studiare nella meravigliosa città, invece di godersela, la vita, in una Napoli così bella, profumata, preferisce chiudersi nei salotti fumosi, sciupare il tempo in discussioni oziose? Giocare alla politica, per cambiare un mondo che nessuno sa se potrà mai diventare nuovo?”

I rivoluzionari hanno peccato di lontananza dal popolo dei lazzari, la cosiddetta plebe napoletana, e dalla dura realtà di un’esistenza inevitabilmente squallida e priva di bellezza. Hanno bollato come frutto di ignoranza e oppressione, quelli che erano i piccoli valori umani e religiosi, unici a dare dignità alla loro vita e a una miseria toccata loro in sorte. Hanno cercato di imporre la ragione, ma “La ragione fallisce, senza dignità né decoro”, o il sentimento che li animava tutti, “E però i sentimenti non sono anch’essi fallaci? Barbari? Come s’edifica un mondo esclusivamente sul cuore?” Hanno sognato per loro la felicità, senza riuscire a far sì che la sognassero essi stessi. “Sempre il vecchio problema: s’ha diritto di far felici gli altri imponendogli quella che riteniamo sia felicità? Felicità comporta sacrifici, s’ha diritto d’imporli a chi pensa che non valga la pena di farli?”

A un certo punto, per conquistare il popolo alla rivoluzione, Eleonora e gli altri cercano di coinvolgere Vincenzo Cammarano, il più noto attore e interprete della maschera di Pulcinella, cui Striano dedica uno dei suoi ritratti più riusciti e complessi, in cui la sua immagine pubblica chiassosa, volgare e untuosa, lascia intravvedere un’intima malinconia e una disillusione amara.

“«Donna Lionò, compatite il mio pensier. Pulcinella è ‘no povero ddio. Un uomo di niente, un pezzente, un vigliacco. Uno che pensa solo a salvarsi la pelle nelle disgrazie che lo zeffonnano. Perciò è arraggioso, fetente, mariuolo, arrepassatore. Non è un eroe. […] E poi,» sospira Cammarano, tornando a sedere «Pulcinella non è un tipo allegro. Sa le cose nascoste. Ca la Repubblica adda ferni’, come finisce tutto, ca ll’uommene se credono de fa’ chesto, de fa’ chello, de cagna’ lo munno, ma non è vero niente. Le cose cambiano faccia, non sostanza: vanno sempre comme hanno da ì. Comme vo’ lo Padrone. […] Pulcinella queste cose le ha sapute sempre, come volete che si metta a fare il giacobino? Lo po’ pure fa’, ma solo per far ridere, per soldi. Isso non ce crede».” Finiscono straziati e infranti, gli uomini e gli ideali. Eppure, nonostante tutto, in luogo di niente o del “resto di niente” rimane, condivisa e passata tra generazioni di umanità distante secoli, la consapevolezza del seme luminoso, commovente e duro che si portano dentro: “Un giorno, grazie al nostro lavoro, spunteranno fiori, frutti, i bambini ne mangeranno. Se nessuno s’occupa del giardino il mondo finisce.”


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