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Eduardo Savarese

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Quella di Eduardo Savarese è una vita vissuta intensamente tra il Diritto e la Letteratura: magistrato, scrittore e docente di Diritto Internazionale, vive e lavora a Napoli. Il Tribunale, però, nella vita di Eduardo Savarese, è un leitmotiv che non fa soltanto da sfondo alle udienze: oltre al canonico Palazzo di Giustizia ve n’è anche un altro, ed è quello connesso alla sua sfera più espressiva, intima ma al contempo più comunicativa, quella forse meno legata ai brocardi e che affonda le radici nella tragedia greca: l’Areopago, che oltre a essere tradizionalmente conosciuto come il Tribunale ateniese presieduto e istituito dalla Dea Atena, con il compito di stabilire se il matricida Oreste fosse ormai redento, è anche il nome del blog di cui è caporedattore: un progetto che si occupa di ingiustizie, di tracciare una linea di bellezza e confronto costruttivo per conferire a chi opera nel Diritto efficaci strumenti di supporto volti a mettere in discussione anche i solidi assetti giuridici che orientano la magistratura e l’avvocatura.

Savarese ha pubblicato, per le Edizioni E/O, “Non passare per il sangue” e “Le inutili vergogne”, rispettivamente nel 2012 e nel 2014 e, nel 2015, anche “Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma”: quest’ultimo, un flusso a metà tra il saggio e la narrativa che si articola tra l’identità di magistrato e quella di scrittore cattolico di Savarese e che quindi amalgama elementi di Diritto a riflessioni personali, è una lettera aperta al Vaticano con la quale intende ridiscutere il concetto di amore e legame, sottolineando il disappunto per il riconoscimento dell’amore omosessuale esclusivamente sotto la luce laica; un testo che spinge a riconsiderare il rapporto tra uomo e Dio, forse a riqualificarlo, in qualche misura, perché l’amore non ha declinazioni né desinenze e conferirgliene significherebbe limitarlo, incastonarlo in una dimensione unilaterale.

La copertina di “Non passare per il sangue”

Nel 2019 ha pubblicato, per Wojtek (di cui dal 2020 è anche editore), il saggio-racconto “Il tempo di morire”, un viaggio attraverso le definizioni e le identità della morte, scritto anche grazie alla partecipazione attiva ad incontri sul suicidio assistito insieme a Mina Welby e Beppino Englaro.

Abbiamo incontrato Eduardo Savarese per una riflessione sui suoi scritti e sulla sua duplice dimensione di uomo di Legge e letterato.

Da Antigone ai Miserabili, da Kafka a Manzoni, per tornare indietro a Plauto e Terenzio: il Diritto e la Letteratura si intersecano da sempre. Perché abbiamo la necessità di metterli in relazione e come vive lei questa dualità da scrittore e uomo di Legge?

«Non so se abbiamo una necessità di metterli in relazione; probabilmente, dal momento che il diritto, la legge, il processo fanno parte della vita della società umana da millenni, e sono intrecciati ai grandi temi del potere, dell’oppressione, dell’iniquità, è quasi naturale che entrino a far parte delle storie raccontate dalla letteratura. Il mondo delle leggi, insomma, è parte delle dure necessità della vita umana. Ciò detto, quel mondo non è praticamente mai entrato tra i temi dei miei romanzi. È entrato nei saggi-racconti che ho scritto, certamente. Ma non nei romanzi. Sono mondi che tengo apparentemente separati. Tuttavia, nell’articolazione del linguaggio, e del pensiero, la logica giuridica tende a essere molto presente in quel che scrivo. Essa costituisce un filo argomentativo che mi porto dentro la scrittura della finzione letteraria».

In un suo recente articolo ha dichiarato che il lavoro che lo sostenta è fare il magistrato, ponendo l’accento sul verbo che in questo caso è da considerarsi meramente strumentale, per l’appunto ciò che “fa” per sopravvivere. Nietzsche, a tal proposito, scriveva: “diventa ciò che sei”: lei pensa di essere diventato ciò che è?

«Assolutamente no! Io sono come il giovane ricco del Vangelo. Gesù lo ama, ma lui non riesce a lasciare le “cose” per seguirlo. Io trascino troppi pesi inutili. Vero è che cerco, anche con la scrittura, soprattutto con la scrittura, di liberarmene».

Nei suoi romanzi ha parlato sempre in maniera molto approfondita delle relazioni omosessuali. Dopo aver assistito alle ultime vicende in merito al DDL Zan non possiamo fare a meno di chiederci se, fra l’azione del Diritto e quella della Letteratura, ce ne sia una che sia più efficace dell’altra sul piano dei diritti umani. Perché la società progredisca, deve aver luogo necessariamente un’azione combinata tra Diritto e Letteratura, oppure una potrebbe avere un ascendente più potente dell’altra? Insomma, cosa è più convincente a suo parere tra la sanzione prevista da una Legge e la sensibilizzazione tramite i libri?

«Sono due componenti entrambe importanti. Come dicevo sopra, la legge è una dura necessità. Ne abbiamo bisogno e abbiamo bisogno di una legge contro l’omofobia. Dopo di che dobbiamo avere anche il coraggio di dire che il diritto non muta i cuori umani. Può dare un contributo, una spinta, e una direzione. Ma la formazione dei cuori e delle menti ha bisogno dell’Arte. E della letteratura, quindi».

Quali sono i talloni d’Achille e i punti di forza di una multidimensionalità come la sua? Appartenere a più mondi la fa sentire “cosmopolita” o talvolta preferirebbe stabilirsi in una dimensione definitiva, tra tutte quelle che la caratterizzano?

«Che bella domanda! Sono molto affaticato, in effetti, e talvolta vorrei solo scrivere. Ma penso che non sono fatto per fare una cosa soltanto. Tenere i piedi in scarpe diverse ti dà ampia visione, spirito libero dagli intruppamenti angusti tipici delle militanze in un solo settore, et cetera. Credo che sia importante essere animati da una tensione di fondo unitaria, pur facendo cose diverse. E credo che la mia tensione si condensi nella passione per la ricerca del nocciolo essenziale del senso della mia esperienza, in relazione alle esperienze degli altri. La tensione verso una verità di pensiero, di parola, di azione. O un tentativo di verità, almeno».


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