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Alberto Samonà con il suo ultimo libro Bonjour Casimiro, il barone e la villa fatata

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Casimiro, il barone della villa Fatata, è il figlio di donna Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangieri che dice addio a Palermo – come dire un addio al mondo – per ritirarsi a Capo d’Orlando nella bella villa in collina da dove si vedono le Eolia, quindi le sirene e perfino le squame di Scilla e le nari enfie di furia di Cariddi.

Ecco “Bonjour Casimiro, il barone e la villa fatata”, il libro di Alberto Samonà – scrittore, una lunga stagione d’impegno presso la Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella – edito da Rubbettino.

Donna Teresa, baronessa Mastrogiovanni Tasca Filangeri, lascia la città e porta via con sé Casimiro e i suoi fratelli – Agata Giovanna e Lucio – per lasciarsi alle spalle il marito che intanto se la spassa con una ballerina arrivata in Sicilia, al teatro Politeama, in tournée.

Ed ecco dunque la rinnovata vita di mammà – e della sua covata – nella splendida villa che il suocero aveva fatto restaurare sulle colline di Capo d’Orlando, da cui si gode una splendida vista su una campagna disseminata di ulivi, agrumeti, pini e abeti secolari che confinano con una boscaglia che va a lambire il mare, fino a innestarsi nei rossi infuocati del tramonto.
Delle genialità dei fratelli Piccolo, del loro famoso cugino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sono piene le cronache.

Ed eccoli: Lucio, dall’enorme cultura, grande poeta scoperto in età matura da Eugenio Montale; Casimiro appassionato di fotografia e di pittura, attratto da tutto ciò che l’occhio e soprattutto la ragione umana non può cogliere – la dimensione dell’eterno fluire dell’energia cosmica, al di là delle nostre coordinate spazio-temporali – e Agata Giovanna appassionata botanica, mai allontanatasi dalla Sicilia, che si fa arrivare dalle regioni più lontane del mondo rare specie che ancora oggi gemmano nello splendido giardino di Villa Vina, come era chiamata dal nome del torrente che scorreva nella tenuta. Ma chiamata – la dimora – anche Villa Piana, o solo La Piana, per indicare la campagna pianeggiante che si dominava dalla dimora.

La stanza degli ospiti ha spesso ospite Tomasi di Lampedusa che ancora negli ultimi giorni della sua esistenza – dalla clinica romana dov’è ricoverato – scrive a Casimiro il suo struggente desiderio di tornar alla Piana “coricarmi nella stanza amata e svegliarmi con l’illusione che non è successo niente, che tutto è come prima”.

Samonà che conosce come le proprie tasche la Villa, il giardino, il paesaggio e tutte le struggenti malie derivate dalla dimora dei tre fratelli, nelle pagine di questo libro riesce a trasfondere il fascino più sottile e pervasivo di una felice alchimia qual è la covata Piccolo.

La Villa, infatti, è il ricettacolo di energie profonde e sempre vive.

La morte – il cui transito domina il loro ricordo – è solo un passaggio ad altre dimensioni, una porta dell’anima, che solo menti attente sono in grado di esplorare abbandonando le vie consuete.

Ed è così che strane apparizioni fanno capolino nelle notti stellate a Villa Piana se solo si è in grado di mettersi in ascolto. Nel silenzio perfetto risuonano echi di voci amate un tempo, perfino dialoghi si intrecciano tra Casimiro già morto che torna a visitare la sua dimora e a interloquire con i suoi amatissimi cani che hanno nella villa un loro cimitero.

La natura è animata dalle creature dei boschi, ninfe, elfi, gnomi, folletti, spiriti elementali, emanazioni dell’anima mundi che rappresentano i quattro elementi della mitica physis greca.

Ciascuno dei fratelli, a suo modo rende chiara l’esistenza di una terra degli dei cantata da Goethe – “È in Sicilia che si trova la chiave di tutto” – e già intuita da Federico II di Svevia quando paragona il Paradiso alla Sicilia. Così Casimiro nei suoi acquarelli, animati dalle creature dei boschi, e Lucio nella sua poesia e Agata Giovanna nel paradiso arboreo da lei creato.

Nel libro il protagonista è Giulio, un giovane appassionato di alchimia, invitato alla villa per partecipare a un convegno dedicato al mito, all’uomo e al suo rapporto con il cosmo. A lui appare Casimiro mentre al calar della sera si siede su una panchina posta di fronte al cimitero dei cani. Come se nulla fosse il barone gli si rivolge spiegandogli che il segreto della fotografia è catturare l’istante – quello giusto – che è unico.

Lo stupore di Giulio non può che aumentare quando accanto a Casimiro appaiono alcuni dei suoi defunti cani, e con uno di questi – Alì – si mette a dialogare. L’animale gli risponde ora in italiano ora in dialetto, in un colloquio straniante in cui il cane ammaestra il padrone “Cu viri un mori ‘cchiù, cu un viri nenti già murìu…. questo non è un cimitero; questo è il centro del mondo”. E Casimiro, conclude: “La villa è sacra, il giardino è sacro, amici miei, ci siamo tutti, per sempre”. E mentre Giulio cerca di capire quello che sta vedendo l’immagine di Casimiro e dei cani svanisce.

La trama procede con ulteriori colpi di scena che non vanno svelati, ma possono così riassumersi: “Non bisogna credere soltanto a ciò che si vede”.
Non ci si deve limitare a un’esistenza inconsapevole. Casimiro – con la sua storia, nel suo attraversamento terrestre – è stato nel suo tempo quel che nel nostro, facendosene carico nell’arte, è stato Franco Battiato: “Parlare di confini quando si sfiora l’Immenso” – così si esprime il maestro di Milo, gemello al maestro di Capo d’Orlando – “è assolutamente impossibile: è il momento dell’espansione massima, superati i velami dell’apparenza. Ci sono persone, esseri speciali, che hanno compreso già in questa vita e a patto di grandi sacrifici il significato del passaggio fatale. Per loro l’abbandono del corpo rappresenta l’atteso Premio, così l’attraversamento sarà per essi molto più importante della permanenza”.

Ecco, di fronte alla maestà della bellezza – al trionfo del mistero, alla poesia – si deve sempre essere pronti a varcare i confini noti, a intraprendere un viaggio iniziatico, senza metà né confini.
Oltre – va da sé – le correnti gravitazionali.


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