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La copertina di "Mani vuote" di Saverio Strati nell'edizione proposta da Rubbettino

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Pubblichiamo uno stralcio di “Mani vuote” di Saverio Strati, riedito da Rubbettino a 60 anni di distanza dalla prima uscita con Mondadori

di SAVERIO STRATI

UN MESE dopo la morte di mio padre, incominciai a lavorare. Andai a fare il pastore alla montagna da massaro Rocco Grosso. Partii una mattina insieme a Rosario, il figlio di massaro Rocco, con una piccola bisaccia zeppa di roba. Era un giovane alto e secco, bruno e sveglio. Uno strano uomo, che mi toccò avere alle calcagna, con molto rischio, per parecchio tempo.

È una storia lunga. Rosario camminava come un treno, leggero ed agile con le sue calandrelle di pelle di capra. Lo seguivo a stento. Quando fummo arrivati alla mandra, mi disse: «Ce l’hai fatta a venirmi dietro». Mi tirò un orecchio e rise. C’era un altro giovane pastore. Eravamo in tre; e qualche volta veniva anche massaro Rocco a cavallo di una giumenta. Rosario aveva cura delle capre, e l’altro delle pecore; io badavo agli agnelli e ai capretti, nei dintorni della mandra. Si era in primavera. La sera si mungevano le capre e le pecore nei secchi di legno, che appendevamo alla pertica davanti alla capannuccia di frasche. La mattina accendevamo il fuoco e si faceva il cacio, nel grande caldaio nero, all’aperto, dopo che il sole s’era messo in cammino per il cielo sempre luminoso e azzurro. A me piaceva la ricotta e ne mangiavo a bizzeffe.

Ero contento di quella vita, perché non avevo più le sgridate di mia madre, e anche perché non si era mai soli, specialmente di notte. Arrivavano altri pastori e parlavano a lungo con Rosario. In certi momenti parlavano una lingua che io non capivo, con certe parole oscure che per loro avevano un chiaro significato. Spesso, nel cuore della notte, compariva qualcuno con una capra in ispalla. Ci svegliava e diceva a Rosario: «Caccia grossa, amico!» Ci alzavamo, si ravvivava il fuoco. Si scuoiava la capra, la si sventrava, la si squartava e la si metteva ad arrostire sulle braci; e gli altri ridevano del padrone derubato.

Osservavo questo mondo con molta meraviglia, ma in fondo mi piaceva. Si mangiava a spaccapancia e poi ci si coricava e si dormiva sino alla mattina. Rosario, mettendosi l’indice sulla punta del naso, mi diceva: «Silenzio, capisci?» «Non parlerò con nessuno, potete esserne certo» l’assicuravo. Qualche volta capitavano dei forestieri, dei cari compari che venivano da Rosario per stabilire qualche passaggio di vacche rubate, per stabilire il prezzo della via libera. Parlavano sino a tardi di altri pastori di paesi lontani, di gente che era stata arrestata e che aveva cantato con i carabinieri, sotto le nerbate; di altri, gente degna, che non avevano aperto bocca. Quando capitavano di queste persone, Rosario ammazzava una delle sue capre, o un agnello e lo si arrostiva sulle braci. Con me era generoso, affabile. Essendosi assicurato che io non avrei parlato di niente, mi si era affezionato e mi ripeteva che col tempo avrebbe fatto di me un vero uomo. Non capivo il vero senso di questo suo uomo, e gli ero riconoscente, e anche io mi legavo a lui. Ma suo padre era diverso: un uomo rude, attaccato agli animali, ed era pronto a menare schiaffi e calci.

Una mattina arrivò che era nero d’umore. Già suo figlio e l’altro erano andati via cogli animali ed io ero con gli agnelli e i capretti nei pressi della mandra. Quella notte c’erano stati amici che transitavano con una pariglia di buoi. Dio sa di chi fossero e dove venissero sbattuti. Erano armati di fucile, i due amici, ed avevano un visaccio di galeotti come mai più ne vidi di simile in vita mia. Si fermarono da noi per alcune ore, per far prendere fiato agli animali, che da due notti camminavano per le montagne. Dissero a Rosario: «Non c’è niente da mettere sotto i denti?» «Per gli amici c’è sempre il cuore di Rosario Grosso» rispose lui. E prese un agnello e lo scannò, e si mangiò. La mattina, dunque, arriva massaro Rocco, scende dalla giumenta e incomincia ad osservare il formaggio, la mandra, la capannuccia, si avvicina a me e conta gli agnelli e i capretti. «Manca un agnello» disse, senza guardarmi. Senza perdermi d’animo, gli dissi: «Ieri s’è perso». «S’è perso?» urlò lui. «Andai a prendere l’acqua giù al vallone, quando ritornai mi accorsi che mancava un agnello» dissi. «L’ho detto a vostro figlio, ieri sera». Massaro Rocco scoppiò a bestemmiare come un eretico. Mi si avvicinò e mi assestò un calcio sul sedere e mi fece cadere a terra. «Figlio di quel cornuto e di quella troia!» urlò. Poi si allontanò; andò in cerca del figlio per il bosco. Dovettero litigare, giacché quando massaro Rocco ritornò era proprio inferocito e bestemmiava e parlava con se stesso. Poi caricò tutto il formaggio sulla giumenta, cavalcò e a me gridò: «Gran cornuto, apri gli occhi. La prossima volta che manca qualche cosa, ti do un calcio e ti faccio volare in fondo al vallone». Se ne andò e per quella volta finì così. Ma dopo un mese capitarono altri amici, e Rosario scannò due agnelli, e a me toccò ripetere la bugia di prima, a massaro Rocco. Il quale mi diede una buona dose di vergate alle gambe e mi mandò via, gridando: «Va’, vai a guardare quella troia di tua madre». Così finì la mia vita di pastore.

Me ne andai al paese, senza salutare Rosario; e lungo la strada piansi, e tremavo di paura, all’idea che anche mia madre mi prendesse a botte. Andai dalla nonna. «Nonna» dissi entrando. «Che, tu?» la nonna mi chiese. «Mi hanno mandato via» le dissi, senza fare molte storie. Continuai: «Non ho il coraggio di presentarmi davanti a vostra figlia, che certo mi darà botte e non la smetterà mai più di farmi la predica… Ma io non ho colpa». La nonna stava recitando il rosario. Interruppe la preghiera e mi disse: «Certo avrai la testa più guasta di quella di tuo padre… Con un lavoro adatto e sicuro che avevi!… Cosa farai, ora?… Certo tua madre non ti perdonerà». Mi dispiaceva che anche la nonna parlasse a quel modo, mi dispiaceva che anche lei richiamasse alla mente mio padre. Stavo all’impiedi e pensavo che ero un grande sfortunato, visto che nessuno aveva pietà di me. «Siediti, ché ti do qualche cosa da mangiare» mi disse la nonna. Avevo fame, ché quel giorno non avevo aperto bocca; ma la fame non mi preoccupava, in quel momento. Pensavo a mia madre; l’idea della sua rabbia e della sua predica mi tormentava; né potevo raccontarle precisamente com’era andata la cosa. Sedetti e stavo con l’anima tra i denti e desideravo vedere mia madre al più tardi possibile. Ma non passarono altri cinque minuti che lei arrivò. Mi aveva sbirciato mio fratello, che giocava in piazza, ed era corso da lei a dirle che io ero sceso dalla montagna e che ero andato dalla nonna.

«Certo avrai commesso qualche grosso guaio» cominciò mia madre. «Perché sei venuto qui? Che ti è successo? Ti hanno per caso mandato via?» «Mi hanno preso anche a frustate» dissi, sperando di commuovere mia madre. Mio fratello, che aveva già sette anni ed andava a scuola, mi guardava con occhi maligni; e sono certo che lui godesse di vedermi nei pasticci e credo che desiderasse che la mamma mi desse una buona dose di botte. «Si son persi due agnelli, mentr ’ero andato a prendere dell’acqua ed il padrone mi ha rigettato tutta la colpa a me» dissi. «Mi prese a vergate e mi mandò via». «Ah!» strillò mia madre. «È per trascuratezza! È per la tua testa vuota… E che farai adesso? Chi ti darà da mangiare?» Non potevo dire la verità; non potevo dire che non ero stato trascurato, non potevo parlare ed ingozzavo tutto dentro. «Andrò a lavorare a qualche parte» dissi. «E dove? Chi ti vuole? Che lavoro potrai fare?» «Vado a zappare» dissi. «E tu sei uomo per andare a zappare?» gridò mia madre. «Nei campi credi che vogliono te?» Stavo a testa china, ad occhi bassi e lasciavo dire. Pensavo di scappare dal paese, di partire di nascosto per una parte qualsiasi del mondo e vivere solo, ma in pace. Mia madre continuava a parlare, in modo agitato, arrabbiato. Mi diede anche uno schiaffo. Ma non piansi; non piansi, per non dare soddisfazione a mio fratello, che stava lì e guardava contento. Lo odiavo, odiavo mia madre, odiavo mia nonna. Anche lei odiavo, in quel momento.

«Mangiati questo pezzo di pane» mi disse la nonna, porgendomi un pezzo di pane condito. Non volli pane, non volli niente. Pensavo di scappare all’indomani, se mia madre non smetteva di brontolare. Alzai gli occhi e guardai mio fratello. Lui stava mangiando il pane che io non avevo voluto, ed aveva l’aria del ragazzo felice. Mia madre mi prese dal braccio e mi fece andare a casa. Non smetteva di parlare. Diceva che non ce la faceva più a lavorare, che i creditori non le davano pace, che non aveva pane da dare a due figli. Poi disse che voleva sapere da massaro Rocco in persona la verità ed uscì. Quell’infame le raccontò che non era la prima volta che io avevo perso due agnelli; che le altre volte mi aveva perdonato per pietà e rispetto, ma che alla fine non ne poteva più.

Mia madre ritornò a casa più furiosa che mai. Mi diede altre botte e riprese a dirmi che ero una testa guasta, figlio sputato di mio padre, che certo avrei portato alla rovina ogni persona vicino a me. Mi minacciò che mi avrebbe fatto morire di fame, che avrei dovuto cercare altrove lavoro. Quella sera passò così, e il giorno dopo non fu meno duro. 


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