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La Befana porta regali e carbone

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In pochi ci pensano, in tanti lo ignorano, ma la Befana è il primo richiamo alla responsabilità delle nostre vite. 

Io l’ho capito quasi subito. Del resto, l’Epifania è “epì-fàinomai”, che dal greco significa “ciò che si manifesta”: l’Epifania è manifestazione. E ogni sei gennaio, grandi o piccoli che siamo, veniamo richiamati alle nostre responsabilità proprio da quest’ultima festa, quella che forse sotto sotto è anche la più odiata e che si porta appresso il fardello di essere l’incompresa e bistrattata fautrice della fine dei giochi, delle vacanze e della leggerezza. 

“Tutte le feste si porta via”, e lo diciamo col piombo tra le labbra, colpevolizzando questo sesto giorno del nuovo anno che già solo per il fatto che arriva per toglierci qualcosa, parte male. 

Però manifesta il nostro dovere, la nostra responsabilità. 

Quando da bambina toccava a me fare i conti con la responsabilità e il dovere, lo facevo con baldanzoso orgoglio. Non ero certo una bambina problematica: ero, piuttosto, il corrispettivo umano di un comodino.

ducata, composta, gentile, quasi fatata. Una specie di San Francesco d’Assisi in scala che tutti adoravano incontrare. Sotto sotto, sapevo di non meritare il carbone che trovavo puntualmente, ad ogni Epifania, dentro la calza appesa al camino eppure, sepolto sotto i cioccolatini e i torroni, era sempre lì che mi aspettava, a gonfiare il fondo della calza e sporcarmi le mani. 

Sì, famiglia tradizionalista, la nostra: talmente tradizionalista che all’epoca non esisteva il carbone in versione dolce, ma neanche un suo qualsiasi palliativo: la “mia” Befana era così intellettualmente onesta che il mio carbone era vero, verissimo, proprio preso dal camino e buttato nella calza. 

La mia Befana era anche la Befana dei regali stimolanti, intelligenti, al contrario di Babbo Natale che invece era il bonaccione barbuto che rimetteva tutti i peccati e dimenticava di buon grado le marachelle infantili, lasciando al loro posto dei bei pacchi regalo perfettamente corrispondenti a quanto richiesto nella rituale letterina: l’Amazon del 1998, potremmo dire. Ogni nostro desiderio, mio e di mio fratello, era un ordine. 

La Befana no. La Befana non guardava in faccia nessuno: mia madre e mio padre, a volte, per rendere il tutto più veritiero, ci raccontavano di plausibilissime discussioni tra Babbo Natale e la Befana, dibattiti in cui la bilancia pendeva tra un doveroso pizzico di rigidità e la rituale bontà del Re indiscusso del 25 dicembre. 

“Perché devi essere così arcigna?” si narra che Babbo Natale chiedesse alla severa collega, “non possiamo soltanto lasciar loro i regali e basta? A che serve il carbone?”

“Non capisci!” ribatteva duramente la Befana, “ci vogliono i regali, ma ci vuole anche il carbone!”

La trovavo una cosa di un’idiozia infinita. Babbo Natale aveva ragione su tutta la linea: i regali e il carbone non c’entravano niente! Non erano correlati, giocavano in due campionati diversi. E a me sarebbe tanto servito un Sindacato dei Bambini Delusi che mi tutelasse davanti al Giudice dei Giocattoli. 

Perciò io, creaturina così dedita allo studio, alla lettura e decisamente inoffensiva rispetto al mio vulcanico fratello, molto più vivace e amante delle sfide già in tenera età, assimilavo la prima, grande ingiustizia della mia vita: il carbone nella calza, anche se non lo meritavo. 

Ad ogni modo, i regali della Befana me li godevo tutti: libri, giochi di società, cose utili per la scuola. “È cattiva, ma ha buon gusto”, dicevo tra me e me, armata di quella stessa presunzione che nascondeva il mio disappunto, per mostrare alla Befana di essere una sua degna avversaria. E però continuavo a non spiegarmi quel carbone. 

Con il passare degli anni, la Befana è passata sempre meno da casa mia. Io crescevo, i libri li compravo da sola, i giochi di società li avevo ormai quasi tutti. Mio fratello aveva nettamente ridotto il suo potenziale distruttivo, era diventato un ragazzo gentile, posato e dall’animo nobile: non c’era più niente da aggiustare, o almeno così pareva. 

Io, invece, all’alba di ogni nuova Epifania, aspettavo sempre più la resa dei conti, aspettavo che si manifestasse di nuovo la mia responsabilità. Paradossalmente, più gli anni passavano e più andava a finire che il carbone me lo sarei meritato. 

Ci ho pensato tanto e alla fine ho capito cosa volesse dire la Befana a Babbo Natale, quando lo rimproverava dicendogli: “ci vogliono i regali, ma ci vuole anche il carbone!”

Ho capito che il carbone ti tiene con i piedi per terra, che i regali ingigantiscono una bontà che lui ridimensiona. Quando tocchi un regalo non ti segna la pelle, e questo contiene un sottotesto importante: il regalo, come viene, se ne va. Il carbone, invece, ti macchia, si fa ricordare. “Sì, sei stato buono”, dicono i regali, “ma c’è sempre qualcosa che puoi migliorare”, aggiunge il carbone. 

Mia madre questo lo sapeva bene. Il carbone che la mia mano piccola e contrariata trovava puntualmente sul fondo di quell’ingrata calza non era una punizione: era uno sprone. Un incentivo, un rilancio, piume nuove per ali più solide e piene, ché da bambini si ha più bisogno di incertezze che di certezze. 

Secondo i greci l’Epifania era il modo con cui la volontà divina si manifestava con segni potenti, significativi. 

A me l’Epifania invece ha sempre dato l’idea che tutto tornasse su un piano incredibilmente umano dopo le feste che imbellettano tutto: modi di fare, cortesie, sorrisi forzati. La Befana ha il grande pregio di portarmi davanti ai miei limiti ogni anno, ad inizio anno, come a dirmi: “guardali bene e abbi cura di loro, durante il tuo viaggio”.

All’Epifania si azzera tutto. Noi non siamo i regali che riceviamo, ma il carbone che ci rimane sulle mani e nel fondo della calza, lì dove nessuno guarda. E forse, alla fine, pure noi stessi abbiamo un fondo, dentro, in cui non guardiamo mai e che facciamo finta che non esista. 

Da bambina il mio lato migliore era tutto ciò che avevo: troppo acerba per commettere errori, ma già abbastanza grande da sapere cosa fossero. 
Col tempo quegli errori li ho fatti e forse la Befana non è più passata perché, finalmente, si è accorta che ci sono arrivata, che ho finalmente capito che col carbone si può fare tutto, perfino disegnare, e che i disegni di quel tipo sono di un’intensità che qualunque matita può soltanto sognare. Il carbone sa cosa significa essere disprezzati, oh, eccome se lo sa; eppure ciò che scaturisce da esso ha un valore che, seppur colto a scoppio ritardato, ha effetto permanente. 

Adesso non guardo più la Befana con lo sdegno cavalleresco che fermava il tremolìo del mio mento di fronte a quel l’immeritato carbone. Adesso la Befana l’aspetto alla finestra con una tazza di the caldo e qualche biscotto e ci facciamo grandi risate sul tempo, la stranezza folle della gente, le grandi domande della vita che alla fine invece sono piccole, talmente piccole che le perdi nel fondo delle tasche e poi le devi rifare da capo. 

E quando il suo tempo è finito e se ne va, mentre trascina la scopa di saggina per terra, così leggera che pare un sussurro, la richiamo indietro, tendo la mano e le dico: “dammi il carbone che mi spetta”.


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