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Francesco De Gregori

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Il broncio irrequieto dei vent’anni, i capelli scomposti, lo sguardo obliquo e ombroso sulla vita che si para davanti a quell’età. È il 1973, Francesco De Gregori ha già scritto di Alice e di Cesare perduto nella notte in attesa del suo amore ballerino. Ha l’aristocratica bellezza anche un po’ stropicciata di un principe, e Principe lo chiameranno poi negli anni a venire.

Il primo fu Lucio Dalla, raccontò De Gregori qualche anno fa su Rai Radio2 a “Non è un paese per giovani”, respingendo al mittente l’appellativo di Maestro.

«Io un Maestro? Non mi piace essere chiamato così – disse perentorio – L’unico soprannome che mi piace è Principe, perché Lucio Dalla mi soprannominò così durante Banana Republic”.

Vien da pensare che dev’essere una sorta di regola non scritta quella per cui gli appellativi più cari li mettono gli amici. È accaduto a Francesco ed è accaduto a Fabrizio De André detto Faber per come lo aveva battezzato Paolo Villaggio in virtù della passione per le matite Faber&Castel.

E così De Gregori e De Andrè sono per molti il Principe e Faber. A legarli anche l’album Volume 8 , pezzi come La cattiva strada e la genesi di Oceano raccontata da Cristiano De André: «Vado in Sardegna e me lo ritrovo (De Gregori, ndr) lì, a casa. In pigiama. Che lavora con mio padre, seduto sul mio divano, con la chitarra, giovane, con la barba rossa, un po’ fricchettone […] E allora io prendo coraggio e vado da lui. […] «Francesco, perché Alice guarda i gatti?». Lui mi guarda con un occhio aperto e l’altro chiuso… Non mi risponde. E non mi ha mai risposto. Anzi mi ha risposto, però in un modo abbastanza inconsueto: cioè scrivendo una canzone, con mio padre. Si chiama Oceano […]».

Non fare domande. Basta ascoltare. Del resto, i pezzi di De Gregori sono costruiti con intarsi di parole poetiche e misteriose. Parole enigmatiche che spiazzano e allo stesso tempo incantano al primo ascolto e lasciano – insieme alle emozioni – una scia di punti di domanda. Mischiano le carte, eppure prendono per mano e riconducono a Francesco, che è il principe della canzone d’autore anche ora che di anni ne compie settanta.

Sette decadi per il cantautore nato a Roma il 4 aprile del 1951. Non pare vero – ma è giusto un attimo – tante e tali sono le tracce di questo tempo trascorso. Lungo la strada note e parole, incontri e passioni, collaborazioni, compagni di palco, libri e letture, chitarre, stadi, teatri e camerini, il Folkstudio, Bob Dylan e Leonard Cohen… Soprattutto canzoni che non rispondono all’usura del tempo ma alla legge del cuore.

Anche solo ad andare a memoria – buchi del ricordo compresi – sembra di stare in una biblioteca: sugli scaffali, canzoni che sono storie costellate da personaggi ma anche da stati d’animo o da pezzi di cronaca che intercettano mutamenti sociali, politici e di costume con affondi nella Storia o nell’attualità cesellati per restare anche dopo.

Il rimando alla biblioteca – nel caso di De Gregori – non è del tutto casuale: il padre, Giorgio faceva il bibliotecario; la madre Rita Grechi l’insegnante di Lettere. A lui diedero il nome di Francesco in omaggio allo zio ufficiale degli Alpini, poi partigiano e vicecomandante delle Brigate Osoppo, ucciso a Porzûs nel 1945. E già questa potrebbe essere una storia alla sua maniera. D’altro canto di “racconti” diventati canzoni è lastricata la strada artistica di De Gregori.

Difficile ricordarli tutti. Così nel giorno del compleanno – insieme agli auguri – ci si può concedere licenze e anche azzardi e si può scegliere di costruire un alfabeto sentimentale che comprenda, ad esempio, alcuni ritratti di donne scritti, cantati e suonati da De Gregori.

Acquarelli impastati di note e parole da tenere ben stretti quando si ha voglia di riprendere tra le mani un vinile o un cd del Principe e ricordare: vale anche per chi non ha vissuto in prima persona gli anni di Alice o della dolce Venere di Rimmel.

Donne di cui si intravedono i visi, le lacrime, gli amori vissuti, quelli brevi e quelli solo immaginati ma anche la forza e in alcuni casi il coraggio. Donne di cui si cerca di indovinarne i destini e ricordarne i nomi. Operazione non semplice la cui chiave di volta può trovarsi, forse, in queste parole di De Gregori: “Nelle mie canzoni sono spesso e volentieri ‘nom de plume’: Alice, Caterina, Carmela, Irene, Annamaria, Hilde. Sono nomi che scelgo per il suono e anche per il significato. Irene, ad esempio, vuol dire pace. Non sono nomi reali di donne che ho conosciuto, tranne forse un paio di casi, come Caterina”.

Suono, significato e mistero, a dispetto dei nomi reali o meno. È una “miscela” creativa e lessicale in grado di dare vita autonoma alle donne cantate del principe. Le incontri e non le dimentichi. Diventano come certe amiche d’infanzia che si riaffacciano nella vita di tutti i giorni quando meno te lo aspetti. Ci si inciampa e le riconosci. Capita con la ragazza di Roma di Atlantide “la cui faccia ricorda il crollo di una diga”. È lei il rimpianto del protagonista del pezzo che vive con un “principio di tristezza in fondo all’anima”. Capita con la Giovanna di Niente da capire che diventa “un ricordo che vale dieci lire” e una girandola di interrogativi. Accade anche con la misteriosa protagonista di Bene.

E poi c’è La donna cannone. Anche lei non ha un nome, in compenso ha una storia di quelle che restano. Si racconta che il pezzo sia stato ispirato da un articolo di cronaca. Un trafiletto intitolato “La donna cannone molla tutti e se ne va”. Se ne va, rompendo con le regole del circo per seguire un amore che diventa sogno tra le stelle e cuore buttato oltre l’ostacolo.

E mentre scorrono i ritratti di queste donne sembra di vederlo il Principe: raccogliere storie, trovare parole e metafore, scrivere uno di quei suoi racconti da cantare a teatro o nelle arene d’estate. Ritratti di ieri, di oggi e domani nel tempo breve di una canzone.

Buon compleanno principe!


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