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UNA concreta rappresentazione di cosa significa svolgere un servizio pubblico la Rai lo ha offerto in questi giorni. Sabato 5 dicembre ha trasmesso su Rai3 “Il barbiere di Siviglia” (direttore Daniele Gatti, regia di Mario Martone), spettacolo che ha inaugurato a sala vuota – per via del Covid – la stagione del Teatro dell’Opera di Roma. Due giorni dopo su Rai1 ha mandato in onda lo straordinario evento di lirica e balletto “A riveder le stelle” (diretto da Riccardo Chailly, regia di Davide Livermore), con il quale La Scala – anch’essa ovviamente chiusa – ha inaugurato la nuova stagione.

Grazie a un impegno produttivo encomiabile, soprattutto sul versante della creatività, la tv di Stato è riuscita a trasformare spettacoli immaginati per il teatro in rappresentazioni attraenti, diciamo pure emozionanti, sul piccolo schermo.

Gli ascolti l’hanno premiata. Stando all’Auditel, “Il barbiere” di Rossini è stato visto da 680.000 spettatori. E’ come se i 1600 posti del Teatro dell’Opera fossero stati riempiti per 425 repliche. “A riveder le stelle” ha ottenuto 2.600.000 spettatori, che corrisponderebbero a 2300 repliche del teatro milanese (2000 posti).

È immaginabile che non tutti quegli spettatori fossero patiti dell’opera lirica, si sa che gli italiani la frequentano poco (all’incirca il 9%), dunque è presumibile che lo sforzo della Rai – una volta usciti dal tunnel della pandemia – crei nuovi appassionati, spettatori interessati a cogliere le suggestioni e le emozioni che offre lo spettacolo dal vivo. Siano essi pochi o tanti, sarà comunque stata un’importante “semina culturale”, ciò che appunto dovrebbe sempre fare un servizio pubblico per il quale si paga anche un canone.

Altrimenti, se si tratta di mettersi in competizione con le tv commerciali, questo balzello non avrebbe, e non ha, senso.

È auspicabile che questa “semina” si estenda ad altri terreni, come la prosa (ovviamente con lo stesso sforzo di creatività e di innovazione di cui la Rai ha dato prova), e ad altre istituzioni culturali, come quelle solitamente trascurate del Mezzogiorno.

Fra queste possiamo citare un’altra eccellenza della lirica, il San Carlo. Il teatro napoletano in tempo di pandemia fa da solo, diffondendo tramite social e web tv la sua stagione, peraltro con un ottimo successo, a dimostrazione del grande interesse del pubblico per la sua attività, pur non godendo il San Carlo dei riflettori che la Rai ha concesso ad altre istituzioni musicali.

Infine ci sembra che, allargando la platea degli spettatori tramite la televisione, anche le istituzioni della lirica restituiscano qualcosa allo Stato, com’è giusto che sia. Produrre e rappresentare un’opera – che in genere resta in cartellone per non più di una decina di repliche – comporta costi alti che il prezzo del biglietto copre in minima parte (per il 15-20%). Il resto viene coperto dagli sponsor, per chi ne ha, ma in massima parte dai contributi dello Stato (il Fondo unico per lo spettacolo), dalle regioni e dai comuni. Ovvero dalle tasse dei cittadini.

La televisione di Stato potrebbe – e dovrebbe – rendersi dunque protagonista di un processo virtuoso in cui da un lato stimola l’interesse per la musica allargando la platea dei suoi estimatori e, dall’altro, restituisce ai cittadini un servizio culturale al quale essi già contribuiscono. Sarà in grado di farlo?


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