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Il 10 gennaio arriva su Sky Atlantic la serie “The New Pope” scritta e diretta da Paolo Sorrentino con Jude Law e John Malkovich. Nel cast anche Antonio Petrocelli: attore, cabarettista, scrittore e caratterista che lungo il suo percorso ha incontrato il Cinema, il Teatro, la Televisione e non solo.

Petrocelli ci racconta di monsignor Luigi Cavallo, il personaggio da lei interpretato nella serie “The New Pope”?
«Don Luigi Cavallo è un personaggio che è presente in quasi tutte le puntate. È l’assistente del Segretario di Stato Vaticano Voiello interpretato da Silvio Orlando. Don Cavallo è un prelato che agisce sempre sotto il comando di Voiello. Si aggira nel Vaticano tramando ogni tipo di azione, lecita e illecita. Cavallo è un personaggio colto, cattivo e spietato, scritto con grande ironia».

Com’è stato lavorare con Sorrentino?
«Sorrentino è un regista che lavora in libertà assoluta e si avvale di una scrittura generosa e sublime. I caratteri, i personaggi del New Pope si esprimono sempre al massimo delle loro possibilità e anche i suoi collaboratori, attori compresi, sono chiamati a tirare fuori il meglio di se stessi. Non si può girare con Sorrentino se non si è sempre concentrati. È un risultato che Sorrentino riesce ad ottenere facilmente perché la sceneggiatura che mette a disposizione è perfetta. Per me è sicuramente l’esperienza più importante della mia carriera di attore. Ciò che mi ha sorpreso principalmente è stato scoprire le grandi possibilità espressive della lingua inglese con cui mi sono trovato a mio agio. In generale ho trovato davvero corrispondente e congeniale alle mie capacità attoriali la scrittura di Paolo Sorrentino».

E con Jude Law?
«Purtroppo non ho avuto scene con Jude Law, il mio è un personaggio oscuro che agisce nell’ombra, in stanze segrete e non ha rapporti con il papa con cui conferisce sempre il Cardinale Voiello. Ho girato con John Malkovich che ho trovato discreto e raffinato nel lavoro, sempre attento a non perdere la concentrazione. Non si atteggia mai a divo e mi è sembrato timido a tratti. Ho anche conosciuto Sharon Stone che è apparsa sul set come una stella cometa e che ci ha sorpreso per la sua semplicità. Senza contare che il piacere più grande è stato quello di recitare in molte scene con un sontuoso e irraggiungibile Silvio Orlando».

Ha recitato in più di cinquanta film: Caruso Pascoski (di padre polacco), Palombella rossa, Il portaborse, La Scuola, per citarne solo alcuni. Qual è il ruolo che le sarebbe piaciuto interpretare?
«Io sono un attore che fa il caratterista, più precisamente sono utilizzato per recitare il carattere o per fare da spalla all’attore principale. Non ho mai avuto l’opportunità di misurarmi in un ruolo da protagonista. La speranza è che, prima o poi, mi capiti di farlo: non è solo una questione di vanità, tutt’altro, ma è soprattutto perché un protagonista ha opportunità recitative maggiori e più complesse di una semplice spalla. Comunque posso dire che ho amato molto il ruolo di spalla in Caruso Pascoski: Nuti è stato molto generoso con me, offrendomi la possibilità di far ridere e di recitare battute clamorose, che gli spettatori citano sempre quando mi incontrano. In generale ho amato tanto i film che ha citato: Palombella per la capacità di Nanni Moretti di anticipare la crisi della sinistra, Il portaborse è un film coraggioso, qualità rara e La Scuola perché è una commedia girata nel 92’ ma che è sempre attuale».

Da autore e regista ha firmato il corto “Il corpo del Che”  presentato a Venezia nel 1996 …
«È stata la prima e unica volta in cui ho fatto il regista, l’interprete e l’autore. Per un attore è fondamentale mettersi nei panni di un regista e capire quali siano i problemi che deve affrontare. L’esperienza di un cortometraggio è limitata rispetto a un film, tuttavia è molto utile. Io ho girato il corto con una troupe di amici professionisti che ho conosciuto sui vari set cinematografici. Ho girato tutto a casa mia, con i miei piccoli bambini ed ho un ricordo dolcissimo dell’esperienza: con loro ragiono sul destino di Che Guevara e sul suo mito che regge nel tempo. Che il corto fosse anche selezionato per la mostra del Cinema di Venezia è stato davvero una piacevole sorpresa».

Ha lavorato con Bellocchio, Bertolucci, Giordana, Luchetti, Moretti, Mazzacurati, Nuti, Salvatores e Sorrentino… qual è il suo regista preferito e perché?
«Sono tutti registi meravigliosi e con tutti vorrei tornare a lavorare. Tuttavia il mio pensiero speciale è per Nuti contro cui il destino si è accanito troppo e per Carlo Mazzacurati che è morto prematuramente, nel pieno della sua maturità espressiva».

Veniamo alla scrittura. Ha pubblicato due romanzi: Volantini (Caliceditori 2001), Il caratterista Basilisco del Cinema (Scaturchio Hacca 2010) e due raccolte di poesie Garofani e Peraspina Perapoma (entrambi Treditre Editori). Da dove nasce l’urgenza della parola scritta?
«La poesia è stata sempre un mio interesse. Di solito si scrivono poesie quando si è giovani. Che io abbia sentito la necessità di scrivere poesia alla mia età può essere sorprendente. La verità è che io ho scoperto che la scrittura è uno splendido strumento per mettere ordine nella propria vita. Non ho mai scritto per pubblicare, ma per indagare su me stesso. Bisogna anche dire che, seppure con strumenti diversi, l’attore e lo scrittore fanno la stessa cosa: raccontano storie».

Chi è Antonio Petrocelli?
«Io sono un lavoratore dello spettacolo che non dimentica mai di essere figlio di contadini. Adoro fare l’attore, ma mi piace anche potare gli alberi. Scrivo poesie, ma amo raccogliere le olive per farmi l’olio. Il mio tempo libero lo consumo nei boschi a cercare tartufi. Quando c’è da affrontare una grande fatica, sono pronto alla sfida. Sono fatto male?»

Tra le parole delle sua infanzia quali sono quelle che ancora “frequenta” quotidianamente?
«La mia infanzia si è consumata a Montalbano Jonico (Matera). Il dialetto è una lingua con non ho dimenticato e che ho utilizzato anche nei miei spettacoli Tropico di Matera e Puzza di Basilico. Alle volte lo utilizzo per tradurre dei classici. Ho tradotto in dialetto persino il Canto del Pastore errante per le vie dell’Asia di Leopardi, solo che il mio pastore fa fuori tutte le pecore e sgonfia la luna con un pugnale. Il dialetto mi riporta subito alla terra dove sono nato. Senza nessuna nostalgia e retorica: terra è la mia parola feticcio».

Lei è nato in Basilicata, a quattordici anni si è trasferito a Firenze per studiare al Liceo Classico Galileo; attualmente vive con la sua famiglia a San Casciano Val di Pesa, nel Chianti. In questa geografia della sua vita, c’è un luogo del cuore a cui torna sempre?
«È da 50 anni che vivo in Toscana: qui ho conosciuto mia moglie e qui sono nati i miei figli. Non posso dire che le mie radici non siano anche qui. In dicembre di quest’anno la mia raccolta di poesie Peraspina Perapoma ha vinto il premio Firenze 2019 ed è stato premiato nel salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio con il Fiorino d’Argento. Quando è entrato il Gonfalone di Firenze per la cerimonia di premiazione mi sono molto emozionato.
La casa in cui sono nato a Montalbano Jonico è toccata a me in eredità. Ci torno sempre, e più volte in un anno, col cuore gonfio di speranze e progetti. Con la frenesia e la voglia di rivedere l’oliveto che è stato di mio padre. Perché limitarsi? Nella vita i luoghi del cuore possono essere più di uno. In ogni caso si è fortunati quando si ha un posto in cui tornare».


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