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Attilio Fontana e Giuseppe Conte

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No, il libro non è “un parallelepipedo di parole morte”, come dicevano, provocando, quelli della Beat Generation. Non lo è, specie in tempi di Coronavirus.

Le librerie riaprono, o meglio, da oggi, i librai hanno facoltà di decidere se farlo, proprio mentre il governo Conte certifica per il libro lo status di “bene primario”, importante come il pane (e i giornali), come le medicine e ciò che nutre e cura, dà sollievo e aiuta a sopravvivere. Plaude l’Ali, l’Associazione dei librai italiani, che da tempo si batteva per la riapertura. E sta bene. Ma c’è un ma.

Ci sono soprattutto i librari lombardi a ribellarsi alla disposizione del governo. La maggioranza delle librerie milanesi –  Colibrì, Gogol & Company, Il Mio Libro, Tempo ritrovato, Mondo offeso, ecc – hanno infatti scritto una lettera aperta al premier Conte e al ministro delle Cultura Franceschini: «Non abbiamo intenzione di esporci al solo scopo di fingere una ripresa culturale delle anime che ci sarà possibile solo quando sarà possibile le messa in sicurezza dei corpi».

A Repubblica Danilo Dajelli di Gogol è molto chiaro: «Siamo librai, non un esperimento sociale. Non si sono mai occupati di noi e ora bisogna ripartire dalle librerie? Chi ci dà guanti e mascherine? Come le mettiamo in sicurezza? Chi viene con il lockdown?».

A seguire questa linea, molto filo Fontana per capirci, sono soprattutto i Led- Librai Editori Distributori che vengono a scontrarsi con l’Associazione Librai Italiani che sta dalla parte di Conte.

Insomma, da un lato ci sono gli operatori culturali che si schierano col governatore lombardo il quale, attraverso un’ordinanza, ha deciso che  librerie e cartolerie resteranno chiuse fino al 3 maggio: «i libri si potranno acquistare solo negli ipermercati e nei supermercati».

E i suddetti librai regionali giustificano il No alla riapertura con altre domande, articolatissime, che si integrano a quelle appena evocate.

Domande che si riassumono nel fatto: che il lavoro del libraio preveda una comunicazione faccia a faccia e che i libri vengano toccati, presi, sfogliati da chi frequenta la librerie, come sanificarli?; e che «si teme il movimento dei lettori verso le librerie e dei librai per andare verso i loro luoghi di lavoro»; e che si profila il timore che «andare in libreria possa diventare per le persone una giustificazione valida per uscire»; e che la riapertura possa far perdere gli ammortizzatori come la riduzione dei canoni d’affitto o gli ammortizzatori legati alla cassa integrazione straordinaria, agli accessi a contributi pubblici, alle agevolazioni fiscali. 

Nel suddetto manifesto della “ribellione culturale “ alle riaperture delle librerie nel resto d’Italia spuntano anche proposte assennate pubblicate sul blog Minima Moralia: «Perché non creare un fondo nazionale o una partnership con i servizi postali, simile nella premessa alle iniziative attualmente sostenute dal contributo libero degli editori, ma su finanziamento statale, per aiutare le librerie a sostenere la gestione economica delle forme alternative di vendita attualmente in atto (spedizioni fuori città, spedizioni a domicilio ecc.)?».

Oppure: «In questo momento sono attive delle misure di welfare (possibilità di cassa integrazione straordinaria, accessi a contributi pubblici, agevolazioni fiscali) pensate per contribuire alla sostenibilità economica degli esercizi commerciali. Quali certezze abbiamo che queste misure verranno mantenute anche dopo la riapertura “simbolica”? Riaprire le librerie non può essere considerato un puro gesto simbolico, ma deve essere un’azione strutturata e gestita nella sua complessità, così come dovrebbe avvenire per tutte le altre attività necessarie alla vita sociale…. In mancanza di garanzie sulle richieste qui avanzate molti di noi si riservano di non riaprire comunque l’attività nemmeno dopo l’entrata in vigore del decreto, finché non sarà possibile esercitare il nostro lavoro nelle condizioni e con le tutele adeguate».

Questo, la ribellione allo Stato, da un lato.   Dall’altro lato, invece, si sviluppa una sorta di resistenza alla resistenza da parte di altri librai, sempre lombardi, più filo Conte, pronti a tirar su la saracinesca, come la catena del  Libraccio, Linea d’Ombra, Un mondo di libri, la Libreria dei ragazzi,  supportate da un graduale riavvicinamento alla riapertura dei colossi Feltrinelli e Mondadori. Insomma, nella capitale dell’editoria, la pace culturale risulta essere più un’idea romanzesca che realtà industriale.

E il fatto che solo a Milano – lo zoccolo duro delle vendite – si sia perso il 50% degli affezionati lettori (anche via Amazon, occhio), be’, non aiuta. Ma, soprattutto, deve fare riflettere…


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