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Concetta Feo in Etiopia

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La fattoria dista circa 5 chilometri, una distanza che Concetta Feo percorre tutti i giorni, andata e ritorno.

«Vado dalle mie due asinelle che tra un po’ mi vedranno e inizieranno a ragliare – avverte, ansimando prima dell’ultimo strappo, la salita finale – abito in campagna ma dal lato opposto del paese. Le asinelle qui stanno benissimo, è un agriturismo, ci sono anche altri animali».

Psicologa e operatrice di Medici senza frontiere, 40 anni, («e 3/4», lei precisa), è partita da Vietri di Potenza, la porta della Basilicata per chi viene dalla Campania, per curare le ferite “dentro”, quelle che non si vedono e che la guerra ti lascia impresse. In zone dove per recuperare certi traumi non ci sdraia certo sul lettino di Freud.

«Sono sempre stata una “vagabonda”- confessa – da ragazza partivo qualche volta anche di nascosto dei miei. Ho studiato nelle Marche, a Urbino, dove mi sono laureata. Da lì mi sono trasferita a Reggio Emilia, dove ho vissuto per 10 anni lavorando in ospedale e studiando a Milano per specializzarmi in psicologia clinica. Viaggiare mi è sempre piaciuto e ho una passione per la fotografia. Ed è così che ho conosciuto Romano Martinis, un fotoreporter che mi ha introdotto nella cooperazione internazionale. Più conoscevo questo mondo più cominciavo a sentire qualcosa dentro, finché a un certo punto mi sono chiesta: ma non è proprio questo quello che mi manca? Ho mandato il curriculum a Msf e ho mollato tutto. Sognavo l’Africa, era il mio pallino. Ma un mese dopo ero in Cecenia per la mia prima missione. A malapena sapevo trovarla sulle carte geografiche».

Che ci fa una psicologa sotto le bombe e l’artiglieria pesante?
«Quando arrivai era il 2014, il peggio ormai era passato, la situazione rimaneva però sempre molto critica. In quei 13 mesi in cui rimasi ci furono esplosioni e attentati. I miei non la presero bene, la mia vita in pochi giorni era totalmente cambiata. Mi vedevano con il camice nella corsia di un ospedale dove avrei potuto fare carriera. La loro fu una reazione comprensibile. Poi con il tempo ci hanno fatto l’abitudine. Ora quando vedono che resto a casa troppo a lungo mi dicono: “Quand’è che parti, dove vai?” La mia è una famiglia tradizionale, umile, simile a tante altre, con solidi valori che mi hanno tramandato, se faccio questo lavoro è anche grazie a loro. E se accetto di raccontare la mia storia lo faccio solo perché si sappia quello che da 50 anni fanno tutti gli operatori di Medici senza frontiere. Quest’anno celebriamo l’anniversario della fondazione, “mezzo secolo di umanità”».

Dalla Basilicata  al fronte coast to coast.
«Sì, ma mi sono sentita sempre sicura. Mi sono sempre fidata della capacità organizzativa di Msf e ho seguito un progetto per la valutazione dei postumi post traumatici della guerra. Non vedevo pazienti ma studiavo gli effetti delle nostra metodologia per verificare l’efficacia dei nostri interventi. Se le persone di cui ci prendevamo cura grazie al nostro supporto dopo stavano meglio. I risultati poi lo hanno confermato».

Si può guarire anche “dentro”?
«Non si può cancellare quello che si è vissuto, anche se sei lo psicologo più bravo del mondo. In Cecenia furono commesse atrocità, crudeltà incancellabili. Per la prima volta nella mia vita ho visto negli occhi degli altri cos’è la sofferenza della guerra. Una sensazione che non si dimentica. Si può stare meglio ma il segno della cicatrice, magari piccola, invisibile, che non fa più dolore, resta. Non devi farla infettare, devi curarla, perché lei è sempre lì, non va via. E se sei bravo e riesci a conviverci quella cicatrice può renderti anche più forte».

L’Africa è arrivata dopo.
«L’anno dopo, il 2015. E si è realizzato un sogno. Ho un nonno, il padre di mia madre, che non ho mai conosciuto ma che tutti mi dicono molto simile a me, e non solo fisicamente. Andò in Etiopia a lavorare, bisognava costruire le strade e fu fatto prigioniero. Quel legame è rimasto, tornare in Etiopia, nei campi dei rifugiati eritrei, è stata per me un’emozione grandissima. Umanamente è un posto che mi è rimasto nel cuore, professionalmente ho imparato tantissimo. Ci rimasi sei mesi, prima di andare nella Repubblica Centrafricana, in uno dei Paesi più poveri del mondo, per aiutare la popolazione locale scampata ai conflitti. Dovevo viaggiare su un piccolo aereo, da un ospedale Msf aun altro. In quel periodo, anno 2016-2017, il mio nipotino mi disegnò in volo con le ali».

Mosul, Iraq. Isis… di nuovo la guerra.
«Il sottofondo era boom, tututututu, boom… un continuo. Se non lo sentivi era il caso di preoccuparsi. Era guerra pura. A questo punto, però, devo dire che c’è un’altra cosa per cui vado fiera: Msf va anche dove non va nessun altro. A Mosul, quella vera, il frontline, c’eravamo solo noi ed era estremamente pericolosa. A 500 metri l’Isis teneva in ostaggio la città antica».

Paura?
«Mai. Solo una volta in tre mesi, a essere sinceri. Uscita dall’ospedale, percorrendo una stradina, intuii che qualcosa non andava, la situazione era sospetta, poi per fortuna tutto andò bene. I nostri livelli di sicurezza sono sempre molto, ma molto alti. Msf per principio non ha nessuna protezione di tipo militare e il rischio ovviamente c’è. Abbiamo regole precise, una organizzazione attenta, capillare. E ognuno rimane però responsabile di se stesso, se vuoi andare a fumarti un sigaretta sul tetto dell’ospedale sai che non lo puoi fare perché fuori ci sono i cecchini. Negli ultimi tempi, purtroppo, ci sono stati molti attacchi, abbiamo perso colleghi e familiari. I nostri colleghi locali sono straordinari. Sono i miei eroi. Da loro e dalle popolazioni che andiamo ad aiutare ho imparato tantissimo. Ci sono persone che rischiano la vita tutti i giorni per venire a lavorare. La cittadinanza lo sa e ti rispetta. Ci sono pazienti che dopo mesi sono venuti a cercarci solo per ringraziarci. Ma la guerra, non dimentichiamocelo mai, è una cosa sporca».

Dopo l’Africa il Medioriente, la Siria. Guerra + Covid.
«Due missioni, l’ultima è finita nel dicembre scorso. Un’esperienza molto dura. Perché se è difficile in Italia far rispettare a tutti l’obbligo della mascherina e del distanziamento si può immaginare cosa questo rappresenti in certi posti dove farsi curare in ospedale per qualsiasi malattia è complicatissimo. Abbiamo supportato un ospedale Covid e poi in un campo, il più grande del Nordest della Siria, il campo di Al Hol, conosciuto perché ci sono le famiglia affiliate all’Isis. Circa 65mila persone, la maggior parte donne e bambini, vedove, mogli di prigionieri, orfani di uomini dell’Isis. Per me un’esperienza molto forte e intensa».

Una donna occidentale tra le donne dell’Isis.
«Msf non fa distinzione. Gli esseri umani possono essere diversi ma sono tutti esseri umani. Interveniamo se una persona è in stato di necessità, se ha bisogno di cure mediche o psicologiche. Ci comportiamo allo stesso modo in tutti i luoghi in cui siamo presenti, come prevedono del resto la Convenzione di Ginevra e il diritto umanitario internazionale».

È stato difficile.
«Con l’approccio giusto si vince qualsiasi diffidenza. E alla fine qualcosa ti torna sempre indietro. Per rispetto nei loro confronti portavo il hijb, un velo che ti copre solo i capelli. Prima di andarmene per tornare in Italia ci siamo salutati, “Grazie – mi hanno detto – e grazie soprattutto per averci restituito la nostra dignità” ».


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