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Lucia Morselli

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La chiamano, non a torto, la “Thatcher dell’acciaio”. «Se a 35 anni non ce l’hai fatta, sei un fallito», attestava in un libello dimenticabile sulle aspirazioni al successo dei manager rampanti. Ed effettivamente Lucia Morselli, classe ’57 padanissima (è di Modena) amministratrice delegata di ArcelorMittal che ha appena rescisso l’accordo di controllo dell’Ilva può vantare, ben prima dei 35 anni, una schiera di successi professionali infilati in curriculum come perle luccicanti nel proprio collier.

Bionda, tailleurino d’ordinanza, una laurea in matematica alla Normale e il battesimo alla Olivetti, Morselli ha piglio da manager spietato perennemente con la luna storta. E’ una vagabonda degli incarichi industriali potenti. Dove vede una cordata vincente ci si butta a pesce.

Guidò la cordata che acquistò TelePiù da parte di Stream contribuendo alla nascita di Sky dove fece fuori Giovanni Minoli, puntò sul Napoli in serie C e contribuì al successo delle dirette del Grande Fratello.

Poi si volse all’acciaio, materia imprenditorialmente assai terragna, se vogliamo. Con una graziosa propensione a tagliare le teste altrui, Morselli arrivò allo stabilimento Thyssen di Terni, e promise – e mantenne – tagli, lacrime e sangue. L’avessero acciuffata gli operai, a quei tempi, l’avrebbero issata al pennone delle più alta ciminiera.

Ma, passata la solita buriana, Morselli – una cordata tira l’altra – divenne presidente di Acciaitalia. Purtroppo, in quel caso era la cordata perdente. Per una che frequenta i cda di Telecom, Sisal, EssilorLuxottica e Microelecttronics, un nuovo, repentino cambio di rotta era obbligatorio. Sicché, eccola, il 16 ottobre scorso, raccogliere “la sfida delle vita”, anche se per Lucia tutte, in pratica sono le “sfide della vita”. Stavolta con gli “altri”, quelli di ArcelorMittal, i franco-indiani che promisero con poca convinzione la rinascita dell’industria pesante italiana.

«Non esiste forse oggi in Italia una sfida industriale più grande e più complessa di quella degli impianti dell’ex Ilva», aveva dichiarato la signora una volta preso il timone dello schieramento opposto e vincente, «sono molto motivata dall’opportunità di poter guidare, farò del mio meglio per garantire il futuro dell’azienda e far sì che il suo contributo sia apprezzato da tutti gli stakeholder». Era il 15 ottobre scorso.

Ora, non so se tutti gli stakeholder abbiano apprezzato la sua lettera di recesso che smonta in una paginetta uno dei principali asset industriali del Paese; sicuramente operai e cittadini di Taranto non l’hanno fatto. Oggi il casino Ilva che iniziò, di fatto, con la famiglia Riva, anch’essi padani antichi, lungi dall’essere risolto, s’è perfezionato. Constatato che, per una questione di scudi penali disattesi oggi «non è possibile gestire lo stabilimento», la grande sfida della supermanager in queste ore è, probabilmente quella di chiudere baracca e burattini evitando possibilmente di essere linciata.

Essendo donna d’acciaio confidiamo che possa farcela. Forse.


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