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Oggi, nel pieno dell’emergenza che sta divorando persone, economia e stile di vita, dovremmo essere tutti di Casalpusterlengo, Padania profonda, zona rossa del contagio e patria dell’indimenticato Giuseppe Borghi, l’angelo con lo stetoscopio. Il dottor Borghi, internista specializzato in scienza dell’alimentazione, di 64 anni con due figli (una ha seguito le orme del padre) è il primo medico di famiglia caduto nell’esercizio del suo dovere, causa Coronavirus.

Il dottor Borghi era un medico condotto silenziosamente straordinario, uno di quelli che si trovano oramai solo nei polverosi rapporti sanitari e nelle letterature del secolo scorso. «Non si tirava mai indietro, se un paziente chiamava a casa lui correva», dicono i suoi pazienti: il Borghi era una specie di dottor Kildare che possedeva la pacatezza e la calma dei professionisti lombardi. Filtrava le diagnosi attraverso il dettaglio, era aggiornatissimo sulle procedure più avanzate “nelle condizioni di disabilità” e amava i pazienti -anche e soprattutto quelli più anziani di lui- come fossero i pulcini di un’unica grande nidiata.

Per trent’anni il dottor Borghi aveva sgranato il giuramento d’Ippocrate come una sorta di rosario laico, esercitando la professione come se fosse nell’eterno solco di una trincea: il camice al posto dell’elmetto e il ricettario riempito come un quotidiano rapporto di guerra. Finché la guerra, alla fine, per lui, non è arrivata davvero. Non avendo mascherine pulite a disposizione, mancando di calzari, occhiali, guanti e attrezzatura specifica per affrontare in tempo il Coronavirus, il dottor Borghi c’è finito dentro; e il suo organismo ha reagito nel peggiore dei modi. Ma il suo decesso, che oggi ha il sapore amaro del piccolo eroismo e del gigantesco senso civico, rischia di essere vano.

Nella zona rossa originaria, il circondario del Basso Lodigiano, si contano, tuttora, ben 18 dottori contagiati su 45. E operano tutti in condizioni al di là dell’umano, non hanno più nemmeno i tamponi. E perfino il numero di telefono d’emergenza dedicato ai sanitari, da qualche giorno, per loro è completamente muto. Soprattutto, tra i loro molti pazienti che visitano -che i medici vogliono e debbono vistare- alcuni hanno contratto il morbo; ma lo si saprà soltanto quando, del virus insorgeranno, vigliacchi, i sintomi. Ci sono tanti dottor Borghi, qui in Lombardia, che si smazzano per 20 ore al giorno, negli ambulatori di medicina generale trasformati in ospedali da campo e, nel contempo, in ricettacoli epidemici.

Sono italiani migliori della media, spesso ignorati dai media perché considerati soldati di retrovia. Ma non è così. Il mio medico, il pregevole dottor Guido Galli, si compra le mascherine di contrabbando, rimane incollato alla scrivania aprendo e chiudendo da solo un ambulatorio da 1500 mutuati, e mi dice: «Stanno finendo le risorse, i prossimi richiamati siamo noi. E noi siamo pronti». Sempre pronti. Ecco. In questi giorni, se potessi, me ne starei volentieri a Casalpusterlengo, dove il dottor Borghi subirà il destino impietoso delle vittime del Coronavirus: nessun funerale, pochi parenti per applaudirne l’immensa umanità, forse una cremazione con tanto di ceneri disperse al vento della storia. Avercene, di italiani così…


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