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Ellie in “The Last Of Us”

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NEI videogiochi regnano gli uomini. Non è solo una questione di pubblico, è anche e soprattutto un problema di storie. Difficile incontrare su uno schermo un racconto di formazione alla William Stoner, una vita piatta e ripetitiva con qualche sbuffo di libertà. Il videogioco ha bisogno di immedesimazione totale: è per questo che la stragrande maggioranza dei protagonisti ha compiti assoluti da svolgere. C’è sempre qualche mondo da salvare, spazi sconosciuti da esplorare, fughe da malvagità inaudite con vittime schiacciate e distrutte dal peso dell’avidità o dal metafisico più inquietante. Tutti ruoli che il nostro immaginario occidentale consegna da sempre, nella letteratura come nel cinema, a uomini. E anche nei videogiochi è così dagli albori del narrato.

Basta pensare alla piccola e indifesa principessa Peach da salvare dopo aver attraversato mezzo regno nei panni del baffuto Mario. Quel Mario Bros. dove ogni volta che si arrivava alla fine di un livello, dopo aver gettato nella lava l’ennesimo mostro corazzato, spuntava quel testa di fungo di Toad per dirci “Thank you Mario, but your princess is in another castle”. La tua principessa, con il vestito bianco e rosso, poi diventato rosa nelle edizioni successive giusto per fugare l’ultimo dubbio, la coroncina e gli svolazzi. Quell’immaginario da poema epico cavalleresco e un po’ disneyano. Il vecchio mito dell’eroe con radici nei millenni trasferito in una avventura senza tempo.

Era il 1987. Un anno dopo, o poco più, i giocatori di mezzo mondo attratti dal potere infinito dell’allora colossale Nintendo, si sono ritrovati tra le mani un lavoro destinato a diventare un classico: Metroid. Lo schermo scorre in orizzontale mentre comandiamo questo “corpo” in una tuta meccanica che affronta solitario pirati spaziali e alieni. Mentre i titoli di coda camminano sullo schermo, la tuta scompare e “spoglia” il personaggio che abbiamo guidato per ore e ore: una donna. Samus Aran. Capelli rossi e fluenti (diventeranno poi biondi con il passare degli anni), sessualizzata al massimo nonostante il limite dei pixel, neanche fosse un soggetto di Flashdance. Si rivolge al giocatore con un gesto di vittoria. Stupore e sospensione, è un punto di rottura fondamentale per il giocatore. Perché per la prima volta in assoluto ci si accorge del potere di un racconto sullo schermo, l’uscita dal nostro corpo fisico, dal genere e dal tempo. Fare a pezzi e ridurre a zero la distanza in un battito di ciglia.

Ma questo non ci ha salvato dalla falsificazione. Lì dove non c’erano limiti imposti dal reale, dove il corpo poteva essere modellato dal nulla si sono manifestate le qualità peggiori. Così come l’industria della moda e della pubblicità hanno creato standard irrealizzabili e tossici, l’artificialità del corpo femminile nel ludico ha profondamente influenzato gusti e immaginari, anche quando l’effetto richiesto era palesemente contrario. Come il caso di Lara Croft in Tomb Raider. L’ereditiera orfana di una casata di archeologi inglesi, instancabile, maestra delle armi e senza paura alcuna fisicamente è un azzardo. La prima volta che uscì sugli schermi aveva un seno assolutamente innaturale su un corpo asciuttissimo. Fu un “errore” di programmazione. Negli anni è diventata una vera e propria icona della “liberazione” femminile. Lara Croft vuol dire determinazione, capacità di sopravvivenza in contesti estremi. Ha un carisma raffinato e pungente e una cultura quasi enciclopedica. Supera l’umano nonostante le sue imperfezioni e un passato complesso e ombroso. È una che si avventura da sola nei meandri della giungla, sfida grossi interessi monetari a caccia dei tesori più leggendari, supera anche inaspettate fatiche personali pur di raggiungere il suo scopo. Tutto può, a meno che non ci si trovi isolati in una stazione spaziale in orbita intorno ad un gigante gassoso. Uno di quei mostri tecnologici claustrofobici.

Una stazione in rovina, Sevastopol, abitata da un killer silenzioso e letale. Questo Amanda Ripley all’inizio non lo sa, lo scoprirà in maniera devastante nel corso della sua fuga nel gigantesco avamposto spaziale. Un Alieno, lo Xenomorfo di Giger portato su schermo da Ridley Scott e a sua volta trasferito su un ansiosissimo gioco in prima persona. Il nostro personaggio è la figlia del tenente Ellen Ripley della serie cinematografica. È un ingegnere. A Sevastopol non c’è praticamente nulla da combattere ad armi pari: l’alieno è uno stalker implacabile, impossibile da uccidere. Ellen Ripley si troverà catapultata in questa situazione dove o si scappa o si muore. E darà fondo a tutto il suo ingegno, alla sua conoscenza tecnologica e alla capacità di sapersi adattare quando è il momento. Alien Isolation è giustamente considerato un capolavoro straccianervi grazie anche alla donna ingegnosa e mai stanca che, guidata dal terrore e dall’istinto assoluto di sopravvivenza, cerca di abbandonare questo incubo. C’è tutta l’atmosfera del primo film. Amanda è alla disperata ricerca di notizie su sua madre, misteriosamente scomparsa anni prima. Arriverà a Sevastopol sapendo che in quella stazione c’è la scatola nera del Nostromo, ci troverà la stessa creatura che ha reso sua madre una donna dispersa nello spazio profondo. E i motivi sono gli stessi: gli interessi predatori di una corporazione che vede nell’Alieno una possibile fonte economica, una sorta di macchina da addestrare alla guerra. Un oggetto di così alto valore che vale la pena sacrificare tutto e tutti.

E chissà cosa ne penserebbe Aloy. Lei viene da una tribù che l’ha emarginata da bambina perché “senza madre”. Un giorno per puro caso scopre un piccolo oggetto che la collega al mondo passato. Quello dove il potere infinito del capitalismo ha automatizzato il nostro pianeta, così tanto da portarlo alla desertificazione. Mille anni dopo il nostro presente, intorno al 3040, piccole tribù di uomini resilienti si ritrovano a convivere in un mondo dominato da strane macchine dalle forme animalesche. Aloy è l’unica in questo mondo ad aver scoperto qualche segno del passato tra natura e pezzi in rovina del mondo industrializzato. Metterà in discussione le tradizioni della sua comunità, la sua condizione di diseredata, i divieti imposti dalle “grandi madri”. Supererà i confini proibiti per esplorare questo mondo completamente “nuovo”. E sarà l’unica alla fine capace di chiarire e mettere un punto a quello che sta accadendo ed è accaduto in questo pezzo d’America oltre gli anni Tremila. Cacciatrice intelligente ma soprattutto curiosa, senza alcun tipo di pregiudizi e di sospetti in un mondo diviso dall’odio tribale. Aloy è il nostro protagonista in Horizon Zero Dawn, dentro la sua immagine c’è tutto: l’incoscienza della gioventù, la voglia di scoperta, il bisogno di trovare risposte oltre i dogmi imposti. Il problema però sta all’inizio: nel videogioco c’è poco spazio per il “male” in senso letterale. Per quanto complessi, tutti questi personaggi hanno certamente qualcosa da lasciare a chi si trova dall’altra parte dello schermo.

E poi c’è Ellie, che mai tanto dolore ci ha dato in questi anni. La giovane ragazzina cresciuta in un mondo infettato da un fungo che trasforma gli uomini in bestie rabbiose. La parte II di The Last Of Us, uscita poche settimane fa, ci mostra una Ellie cresciuta, apertamente omosessuale, che cerca di trovare un ruolo e uno spazio in questo mondo ostile e dolorante. La sua ricerca spasmodica di vendetta che cancellerà qualsiasi briciolo di umanità nonostante in lei brilli ancora la fragilità di una giovane adolescente incapace di trovare se stessa. Fragilità alimentata da una rabbia cieca, che le farà compiere gesti al limite dell’assoluto, versare litri di sangue spezzando storie, amicizie e futuri. Ellie arriverà alla fine del suo viaggio distrutta, ferita nel profondo, completamente drenata. È forse il personaggio più complesso, l’antieroe per eccellenza in un mondo molto simile a quello immaginato da Cormac McCarthy ne “La Strada”. Abbiamo imparato a volerle bene, poi a temerla come incredibile macchina di morte, infine non sappiamo più cosa desideriamo. Forse soltanto un po’ di meritata pace.


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