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Gigi Proietti nel suo "A me gli occhi please" iniziato nel 1976

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PER dare una dimensione della grandezza di un artista come Gigi Proietti dobbiamo ricorrere ad un paragone. Per quanto sbagliato e ingiusto, perché si tratta di due personalità diverse, l’una più dedita al cinema, l’altra più al teatro, alla cultura popolare e allo spettacolo, dobbiamo mettere per forza, uno accanto all’altro, Gigi Proietti e Alberto Sordi. Perché il solco lasciato dal suo passaggio è stato quello lì.

Quello che Albertone ha raccontato con centinaia di film, Gigi lo ha fatto con uguale se non maggiore incisività e talento sul palcoscenico, in tv, nel varietà, nelle fiction (pensiamo al “Maresciallo Rocca”), nella musica popolare romana, nella regia e negli adattamenti del grande teatro colto, nella direzione artistica di spazi come il Brancaccio e il Globe Theatre, nonché maestro di recitazione nel suo leggendario laboratorio dove vennero fuori decine e decine di attori, da Giorgio Tirabassi a Enrico Brignano.

Ovviamente anche nel cinema Proietti ebbe un ruolo importante e affatto secondario. Se pensiamo al film cult “Febbre da cavallo” l’iconografia che viene alla mente è la sua, sorriso magico e fare truffaldino per tentare l’ennesima “mandrakata” visto che, alle corse dei cavalli, lui e il Pomata (Enrico Montesano) non erano così fortunati. Gigi Proietti è stato e rimarrà l’artista, interprete e innovatore di uno spettacolo che ha segnato la storia del teatro, del cabaret e del costume: “A me gli occhi please”. Per tre anni di seguito, più di mille giorni, in un tendone fatto costruire per l’occasione poco lontano dallo stadio Olimpico di Roma, un funambolo della recitazione, anche autore e performer, metteva in scena un monologo capolavoro che segnò un’epoca, introducendo in Italia il “one man show”, un misto di colto e popolare, di alto e basso, di citazioni eduardiane e satira di costume.

Un genio assoluto. Il suo nome, sul grande schermo, è legato anche ad uno straordinario film come “Casotto” di Sergio Citti, in cui Gigi duetta con Franco Citti in un cabina di una spiaggia dove si alterneranno mostri sacri del calibro di Ugo Tognazzi, Mariangela Melato, Paolo Stoppa, un giovane Michele Placido e una giovanissima Jodie Foster. La sua ultima interpretazione è stata il Mangiafuoco nel “Pinocchio” di Matteo Garrone, uscito a Natale scorso, e questo Natale sarebbe stato il papà di Marco Giallini in “Io sono Babbo Natale”, chissà se arriverà in sala o su qualche piattaforma. Rimanendo nel cinema, Gigi era orgogliosissimo di aver preso parte a “Un matrimonio” di Robert Altman e “La figlia di D’Artagnan” di Bertrand Tavernier, due film diretti da due registi enormi che in Italia non furono ben distribuiti e che il pubblico praticamente non vide.

Sul teatro servirebbero intere pagine per dire cosa ha fatto. Oltre al suo recital per eccellenza, Proietti portava abitualmente in scena i classici, Shakespeare in particolare, per la straordinaria attualità della sua opera che considerava parlasse sempre ai contemporanei. Era una persona coltissima Gigi, uno studioso sopraffino, tanto che convinse l’allora sindaco di Roma Walter Veltroni sulla necessità di far costruire un teatro elisabettiano, dentro Villa Borghese, dedicato alle rappresentazioni shakespeariane. Un gioiello unico al mondo, grazie ad una struttura tipica dell’Inghilterra del XVII secolo motivo, in questi 15 anni, di pellegrinaggi continui che permettono di comprendere ancora meglio l’importanza dei versi del bardo di Stratford Upon Avon, che Gigi stesso adattava e metteva in scena, nel modo più fedele possibile. Perché, amava dire, che la grande rivoluzione nell’arrangiare un’opera di 500 anni fa è riproporla esattamente così come è stata concepita, lasciando allo spettatore i margini per leggerne le similitudine con i giorni nostri. I grandi maestri, diceva Gigi, non vanno toccati. Chi siamo noi per mettere le mani dentro Checov, Pirandello, Ibsen?

Pasolini morì nello stesso giorno di Proietti. Per lui Moravia disse: “Abbiamo perso un poeta, ne nascono ogni cento anni”. Oggi possiamo dire di aver perso uno dei più grandi artisti dello spettacolo italiano mai esistiti.


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