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Gigi Proietti, morto il 2 novembre nel giorno del suo ottantesimo compleanno

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“CIAO GIGI!”: così, semplice come qualcosa che sale dal cuore che semplice è, e non labirintico come il cervello, sta scritto, da ieri all’alba, nella home page del sito ufficiale di Gigi Proietti. Lo vedi e non lo vedi quell’ultimo applauso, perché lo illumina, ma anche lo oscura, il sorriso di lui, che non sai se chiamare attore o regista, drammaturgo o poeta, cantante o mimo, doppiatore o insegnante, Mandrake o Maresciallo Rocca, Cyrano o il Genio, Fregoli o Petrolini.

Quel “sorriso maggico” più d’una volta citato su di un palcoscenico, su di un grande schermo o in uno studio televisivo fin da quando lo sfoderò Bruno Fioretti detto Mandrake, scommettitore a Tordivalle senza fortuna e generico a Cinecittà senza parte nel film di culto diretto da Steno più di quarant’anni fa, “Febbre da cavallo”, che la critica d’allora accolse con lo sgarbo di sempre per la puzza sotto al naso che le vietava (vieta?) di annusare il popolare e forse perfino il popolo. Ma generazioni intere, babyboomers e millennials, recitano a memoria le battute di quel copione e sanno di quella tris, Soldatino, King e D’Artagnan, e del whisky maschio senza rischio, anche al tempo della movida frenata.

Gigi Proietti è uscito di scena, dalla scena del mondo, il giorno del suo compleanno. La stessa casualità era accaduta a William Shakespeare: Gigi aveva magnificamente unito l’anima teatrante del Bardo e sua quando ha diretto, nel cuore della sua Roma, a Villa Borghese, il “Silvano Toti Globe Theatre”, scespiriano nello stile e nel cartellone. Era nato a Roma il 2 novembre 1940 e sulla data di nascita, “il giorno dei morti”, ironizzava all’occasione, facendone forse uno scaramantico esorcismo: erano, ironia e scaramanzia, due delle tante sfaccettature che appartenevano non solo all’uomo di spettacolo che Gigi Proietti è stato, e continuerà sempre ad essere, grazie alle teche istituzionali e casalinghe, ai motori di ricerca ed agli archivi digitali, e all’uomo che stato, al “romano dentro” (anche romanista, va ricordato) al quale quelle virtù non mancano davvero. A lui, mai. Gli bastava una battuta (sua) per crearci una barzelletta; una barzelletta per ricamarci una commedia come quella del cavaliere nero che prolungava a piacere moltiplicando i figli del nemico, il cavaliere bianco, i figli dei figli e dei figli. Smetteva perché al cavaliere nero ”nun je devi rompe er…”.

Il ragazzo Gigi di giorno studiava giurisprudenza (“si fa per dire” avrebbe scherzato anni dopo), di sera andava ad intrattenere, parole e musica, nei locali dell’allora Dolce Vita e faceva mattina che, ha raccontato, “il collo non mi entrava più nel colletto della camicia, e mi ci sarebbe voluto un copertone”. Ma quante persone conobbe, che poi avrebbe trasformato in personaggi! Conobbe anche Sagitta, svedese come i miti femminili di allora, guida turistica che scelse Gigi e il sole d’Italia, insieme cominciarono un viaggio che è durato due figlie, Susanna e Carlotta, e 58 anni vicini vicini, fino all’alba di ieri.

Incontrò il teatro, quello classico, tendente al “birignao”, e quello popolare: li incrociò tra di loro e seppe sempre tenerli insieme. Era uno spettacolo. Shakespeare e Steno, il dramma elisabettiano e la commedia all’italiana. Lo faceva anche un altro Mattatore: Vittorio Gassman. Pare che una volta Gassman gli abbia offerto di interpretare Iago in un Otello e che Proietti il suo no lo abbia sempre rimpianto. Salì sul palcoscenico del “Sistina”, il tempio italiano del musical, per “Alleluja, brava gente”; Garinei, Giovannini, Rascel, le musiche di Modugno, che si ritirò dalla parte che invece venne affidata a Proietti. Definiva l’accaduto “un colpo di fortuna”. Forse fu il suo, certamente fu il nostro di spettatori oggi “segregati” e chissà che angustia deve essere stata per Gigi Proietti, che s’è offerto un’ultima interpretazione in uno spot nei giorni del lockdown. Un drone che vola sulla sua Roma e la voce inconfondibile che invita i meno giovani, “i miei coetanei”, a restarsene a casa e riguardarsi, e gli abbracci torneranno. Chissà.

Intanto, senza poter dare conto di tutti i successi di una lunga storia di spettacolo, teniamoci stretti i sorrisi e le risate, le emozioni che Gigi Proietti ci ha regalato (“A me gli occhi, please” che bel titolo per uno splendido spettacolo da godere seduti sulle panche di un teatro tenda anziché sulle talvolta algide poltrone di una platea: il teatro popolare e del popolo, il tendone stracolmo, l’incubo del distanziamento sociale mai neppure pensato); pensiamo alle sere in tv, fiction e no; al Teatro Brancaccio che diresse e che sì, gli andrebbe intitolato, come è stato chiesto; rileggiamo, o leggiamo, gli aneddoti raccontati dal Proietti che s’è fatto scrittore, i sonetti romaneschi. E qualcuno che sapesse farlo dovrebbe scrivere per lui i versi che dedicò alla scomparsa di Alberto Sordi che, nell’immaginario di Gigi, si rivolgeva alla sua Roma ed al suo popolo “ma che state a fa’, ve vedo tutti tristi e nel dolore” e la risposta era “e c’hai ragione, tutta la città sbrilluccica de lacrime e ricordi, ‘ché tu non sei sortanto un granne attore, tu sei tanto di più: sei Alberto Sordi”.

E tu sei Gigi Proietti, e chissenefrega della rima.


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