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Per innescare un nuovo rinascimento italiano la ricetta c’è, ed è quella a base di ricerca, innovazione, trasferimento tecnologico. Ma per il Mezzogiorno, Cenerentola per gli investimenti – eccezion fatta per la Campania – e tuttavia fucina di talenti e di invenzioni, occorrerebbe una sorta di piano Marshall. La debole capacità di trasformare i frutti dell’ingegno in valore aggiunto per l’Italia – soltanto circa 4,5 milioni di euro nel 2016 dalla vendita di brevetti fra Università ed Enti di Ricerca – richiamata dal ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Marco Bussetti, durante la recente tre giorni milanese sui brevetti, Innovagorà, dovrebbe trovare nell’imminente realizzazione di una Fondazione, realizzata con fondi privati, la risposta per favorire il trasferimento tecnologico. L’obiettivo è innescare un processo virtuoso fra la domanda delle imprese e l’offerta della formazione, in grado di generare sviluppo economico e sociale.

«La struttura si dovrà occupare – ha annunciato lo stesso responsabile del MIUR – dell’intermediazione fra l’attività brevettuale e i potenziali clienti, oltre che dell’individuazione dei fondi di investimento per dare concretezza alle idee delle nostre migliori menti». Per tutti gli Atenei e gli Enti di ricerca, soprattutto per quelli del Mezzogiorno, la Fondazione potrebbe offrire un viatico concreto per sviluppare le invenzioni dei propri scienziati. Un’occhiata al Report Ricerca e Innovazione per la competitività nazionale, presentato dal CEO di The European House Ambrosetti, Valerio de Molli, delinea in modo inequivocabile la forbice drammatica degli investimenti in Ricerca e Sviluppo nelle regioni italiane.

Ad una Lombardia, prima della classe, con 4,76 miliardi di euro investiti nel 2016, fanno da contraltare la Campania, che è la prima al Sud con 1,27 miliardi di euro, la Sicilia con 0,69 miliardi, la Puglia con 0,61, la Calabria con 0,19, la Basilicata con 0,08 miliardi di euro, incredibilmente risicati. Sommando tutti gli investimenti in queste regioni si arriva a 2,768 miliardi di euro. E neanche aggiungendo gli investimenti in Abruzzo, pari a 0,32 miliardi, in Sardegna 0,28 miliardi e in Molise 0,04 miliardi si riesce a raggiungere l’investimento in Lombardia. Il totale è infatti pari a 3,408 miliardi. Insomma, nella sola Lombardia si spende, in R&S, quasi una volta e mezza di quanto non si faccia in tutto il Mezzogiorno.

I dati, su base Eurostat, che si riferiscono alla spesa sostenuta da imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni private non profit e università, sommati su tutte le regioni consegnano la cifra di 23,2 miliardi di euro circa. Spiegano molto chiaramente perché molti cervelli del Mezzogiorno emigrino al Nord o all’estero. La Lombardia attira il 60% degli investimenti esteri in Italia, ospita il 47% delle multinazionali presenti e rappresenta il 21% degli investimenti in R&S del Paese.

A queste condizioni, con il Sud non c’è partita. Fra i giovani scienziati del Mezzogiorno che hanno mostrato i loro brevetti ad Innovagorà, di fronte alla domanda sugli sviluppi futuri è emerso costantemente il timore di non riuscire ad ottenere investimenti sufficienti per completare la primissima fase della valorizzazione dell’attività di ricerca, la cosiddetta early stage, oppure il timore di non poter portare l’invenzione dalla fase Trl3, il cosiddetto proof of Concept, alla fase denominata Trl6, ovvero al prototipo industrializzabile. Il nodo, a livello generale e non solo limitatamente al Mezzogiorno, sta nel nervo scoperto «degli scarsi investimenti destinati da investitori privati a Università e centri di ricerca: in Italia – ha osservato il Capo Dipartimento per la Formazione Superiore e per la Ricerca del MIUR, Giuseppe Valditara – è pari a 20 rispetto al pil, in Germania è 174.

E il volume complessivo de i fondi di Venture Capital in relazione al pil è pari a 12 in Italia, a 96 in Germania». Questi sono soltanto alcuni dei fattori per cui si rischia che “le buone idee secchino prima di maturare”. Nel Mezzogiorno, è evidente, il rischio può essere considerevolmente più alto. Poi c’è l’aspetto “drammatico” della scarsa resa dei brevetti, a livello nazionale. «In presenza di un portafoglio di brevetti attivi pari a 3900 circa, il ritorno medio per ciascuna delle 55 università censite è di 36 mila euro, per un totale di 1 milione 980 mila euro». In alcune regioni del Sud, probabilmente una chimera. Facendo un raffronto con l‘estero, Giuseppe Valditara ha ricordato come la sola, prestigiosa Università di Lovanio, in Svizzera, realizzi introiti annuali pari a 90 milioni di euro dalla licenza dei brevetti e come in 13 anni abbia raccolto 927 milioni di euro.

L’Imperial Innovations, struttura del Trasferimento tecnologico dell’Imperial College, con 600 brevetti, 115 spin off collegati, raccoglie 1,5 miliardi. La Oxford University Innovation, un portafoglio di 2873 brevetti, ha un ritorno di 11,5 milioni di sterline. Le spin-off del Politecnico di Milano raccolgono 30 milioni di euro circa l’anno. Leonardo Soria, scienziato inventore del Politecnico di Bari, che a Milano negli incontri B2B ha riscosso successo con il suo brevetto capace di fare una mappa dello stato del manto stradale, e non solo, saluta con favore l’arrivo della Fondazione: «Sarebbe più facile incontrare gli investitori, come è accaduto ad InnovAgorà e non dovremmo sottrarre tempo alla ricerca per trovare i soci finanziatori – spiega – di questi incontri, ne occorrerebbero molti». Nell’attesa che una struttura ministeriale medi l’incontro fra mondo della ricerca e le imprese, resta tuttavia, per i ricercatori, l’incombenza di fare i conti con l’immediato futuro.

Nel 2017 l’Italia per la prima volta ha superato la Germania, ottenendo il primato nell’UE, per valore della produzione nel settore farmaceutico, con il record storico di 31,2 miliardi di euro. Come potranno, gli scienziati del Mezzogiorno, completare la fase pre-clinica delle singole molecole brevettate contro le metastasi, o quella salva infarto, o quella per riparare i danni dell’osteoporosi? Dovranno sperare di vincere fondi partecipando a bandi regionali, europei, internazionali, oppure vivranno nell’incertezza, in bilico fra l’andare avanti e “far seccare”, appunto, l’idea.

Il caso della medicina, dove l’Italia ha picchi di performance sia in termini di citazioni, che di pubblicazioni, è emblematico. Seconda al mondo per numero di citazioni nel campo degli studi sull’invecchiamento, dopo gli Stati Uniti, l’Italia è terza nella top ten del numero di citazioni complessive in medicina. In oncologia, nel 2017 ha raggiunto il primo posto per citazioni. All’estero, di fronte a questi risultati, farebbero faville, anche sotto il profilo economico. Al Medical Research Council Technology ( MRC-T), in Gran Bretagna, secondo i dati European House Ambrosetti, l’attività di trasferimento tecnologico ha prodotto 400 licenze commerciali, sono state costituite 18 start-up, è stato fornito il supporto al lancio di dodici farmaci e sono stati generati oltre 700 mln di sterline dall’attività di Tech Transfer. Le Università e gli Enti di ricerca del Mezzogiorno lo hanno capito. Ora urgono i fatti.


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