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L’Italia ha tutte le carte in regola, ma potrebbe perdere la grande occasione di arrivare presto ad un farmaco contro il Covid-19 basato sugli anticorpi monoclonali, ora che è chiaro, come ha segnalato Science il 5 maggio, che “La corsa agli anticorpi che bloccano il nuovo coronavirus è in atto”.

L’immunologa Erica Ollman Saphire dell’Istituto di Immunologia di La Jolla, in California, ha riferito che nel mondo sono almeno 50 i gruppi di ricerca e i laboratori impegnati a individuare gli anticorpi monoclonali bloccanti per il Sars-Cov-2, da lei coordinati.

L’Italia, seppur non menzionata espressamente da Science, è parte importante di uno dei sette gruppi di ricerca accademici, grazie ad un progetto fra guidato dall’Università di Toronto e di Boston (con il professor Pier Paolo Pandolfi) in collaborazione con l’Università di Roma “Tor Vergata”.

I ricercatori canadesi hanno “isolato, dopo un lungo lavoro di screening, due anticorpi monoclonali che potrebbero dare molte speranze per un farmaco contro il Covid-19. Sarebbe interessante, e certamente vantaggioso, per il nostro Paese, partecipare a questo studio multi-centrico con Canada e India, perché possiede le competenze necessarie. È una opportunità che non dobbiamo perdere”.

Così Giuseppe Novelli, genetista dell’Ateneo, Direttore della UOC di Genetica Medica del Policlinico di Tor Vergata, con oltre 600 pubblicazioni scientifiche all’attivo.

«Siamo partiti un mese fa per cercare un valido interlocutore, istituzionale e non, perché il progetto possa essere finanziato. Se tutto andrà in porto, l’Italia, fra i vantaggi, sarà tra i primi Paesi a poter disporre del farmaco» – spiega lo scienziato originario di Rossano, in provincia di Cosenza.

Molti studiosi, riferisce Science, ritengono che prima che arrivi il vaccino, gli anticorpi dimostreranno la loro capacità di curare i malati, in quanto molecole ingegnerizzate, create ad hoc per impedire al virus di entrare nella cellula. Anche il professor Novelli, insieme all’amico oncologo Professor Pier Paolo Pandolfi, crede convintamente sulla loro efficacia per bloccare il Sars-Cov-2.

Professore, in che cosa consiste la ricerca?

Con il Professor Pandolfi, illustre oncologo, da anni, oltre che sul cancro, conduciamo studi per capire la suscettibilità genetica di alcune malattie. Anche nelle malattie infettive, come questa, c’è una base genetica. Stiamo studiando il Sars-Cov-2 attraverso l’elaborazione di una serie di dati. Pier Paolo Pandolfi, in particolare, e i colleghi dell’Università di Toronto, hanno fatto lo screening di una libreria di anticorpi monoclonali.

Ovvero?

Oggi, per fare gli anticorpi monoclonali c’è bisogno di librerie biologiche – o biobanche – molto ricche di queste diverse proteine, che sono le nostre immunoglobuline.
Ne esistono tante, modificate tipicamente dagli scienziati, che vengono messe in queste librerie e vanno poi selezionate. Più grande è la libreria, maggiore è la probabilità di trovare un anticorpo, che noi chiamiamo “bloccante”, cioè che inibisce completamente la molecola bersaglio, quella per cui è stato costruito.

Come nasce un anticorpo monoclonale?

Nasce in laboratorio. La molecola viene disegnata prima su una base del computer, che rappresenta quali sono le regioni target di bersaglio e si chiamano tecnicamente epitopi.
Attraverso tecniche di ingegneria genetica si creano le molecole proteiche, ovvero le stesse molecole che le nostre cellule producono quando avvertono la presenza di un virus e che vengono liberate con il plasma, soltanto che, in questo caso, le produciamo in laboratorio. Sono proteine omogenee che vengono ingegnerizzate per essere utilizzate in campo clinico e diagnostico e sono molto precise.

Quale risultato avete raggiunto con Toronto?

Gli scienziati canadesi hanno individuato una decina di anticorpi monoclonali. Fra questi dieci, ce ne sono due molto promettenti che, dai primi studi fatti in America sulla loro capacità bloccante, si sono rivelati estremamente attivi. Questo vuol dire che riconoscono il target in maniera specifica, ovvero una parte particolare della proteina S del virus, la cosiddetta spike, che è la chiave di ingresso per entrare nelle cellule.

Gli anticorpi monoclonali saranno dunque i farmaci adatti a bloccare il Sars-Cov-2?

Senza dubbio. La ricerca moderna si sta indirizzando a farmaci specifici, che intervengono sulla “chiave di accesso” del virus e non danneggiano altre cellule.
L’anticorpo monoclonale non si attacca alla porta di ingresso dell’organismo, si attacca solo alla chiave, modificandola in modo permanente, così da renderla non riconoscibile dall’organismo.
È il modo migliore per curare, perché, diversamente dai vaccini che sono utilissimi ma vengono usati sulle persone sane, è un farmaco e serve per guarire le persone malate.
La rivoluzione che gli anticorpi monoclonali hanno generato sui tumori o nelle malattie croniche come l’artrite reumatoide o le malattie autoimmuni, come la psoriasi, è straordinaria, perché funzionano.
Fino a qualche anno fa erano costosissimi, e difficili anche da riprodurre.
Oggi abbiamo tecnologie che consentono di produrli, in grande quantità e a costi ridotti.

Perché non se ne parla, come per il vaccino?

Sono due cose diverse, ma non in contrasto. Il vaccino è per la prevenzione di future pandemie ed epidemie. Questo invece è un farmaco per i malati, altamente sensibile e molto preciso contro il virus.

Quale ruolo chiedete per l’Italia, per il nuovo farmaco?

Da subito abbiamo chiesto ai colleghi americani che anche l’Italia partecipasse alla sperimentazione clinica, inizialmente prevista solo per il Canada e l’India, considerato che i rispettivi governi hanno sostenuto l’impegno economico per isolare gli anticorpi. All’Italia chiediamo di sostenere la sperimentazione accademica, che ora, nella fase 1 e 2, va condotta su piccoli gruppi di malati, in un paio di centri clinici italiani.


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