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Il campo di concentramento di Auschwitz

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Il museo di Auschwitz ha lanciato un appello ai visitatori per dire basta ai selfie ridenti e alle foto da equilibristi sui binari.

Lo ha fatto perché il numero di ragazzi che se li scattano usando lo sfondo dei campi di sterminio sta aumentando. Perché questi ragazzi mostrano quest’immagine di sé, così sconnessa con il reale dei campi che li circonda? Un’immagine di sé priva di pensiero? Ci vogliono dire, così, per sfida, che l’educazione, la scuola, la famiglia con loro hanno fallito totalmente? Che sono delle zucche vuote e contenti di esserlo? Allora come possono essere contenti? 

No, non lo sono, lo fingono. Fingerlo è un’arroganza punita con l’angoscia. “Ma sono passati più di sessant’anni dalla fine del nazismo”, protestate, “c’è il diritto all’oblio!”. No, carini, per tanti e soprattutto per voi non è passato proprio niente. Un autoscatto sorridente davanti ai campi della morte è un modo per minimizzarli, riducendoli a un dettaglio. Gli antisemiti, i negazionisti, fanno orrore, ma anche chi ostenta questo genere d’indifferenza ottusa, nasconde qualcosa di purulento.

Auschwitz, che sta in Polonia, è la vera capitale d’Europa, anzi il cuore del mondo. Solo lì possiamo davvero meditare, pregare, sperare, ripartire.

 Certo, alcuni liceali vanno in visita ai campi di sterminio senza che la visita li modifichi, provano a commuoversi ma non ci riescono. E dopo s’interrogano sul perché quel luogo non abbia suscitato in loro qualcosa, eppure gli riconoscono lo statuto di realtà e iniziano a pensarci su. Ed è già qualcosa. Nessun freno inibitorio, nessun contegno invece, per chi sente il bisogno dell’autoscatto così impellente da superare ogni confine, persino quello invalicabile di Auschwitz.

 Come dobbiamo comportarci con loro? Mostrare forse un po’ di compassione per come si riducono? Hanno ricevuto forse una cattiva educazione? E’ colpa di genitori irresponsabili? O sono affetti da disturbi psichiatrici? Troppo facile, da una simile vergogna non c’è via di fuga. Sono responsabili della bruttura che quel gesto rappresenta, della ferita inferta. 

Certo, fra di loro ci sarà sicuramente qualcuno di maligno, che compie il gesto con l’intenzione di profanare. Vorrebbe sopprimere, cancellare la memoria del mondo concentrazionario affinchè non ne resti traccia. È la manifestazione più odiosa del fondamentalismo. Ma per la maggior parte di loro quel comportamento certifica il vuoto che li abita. Un mondo interiore composto da cose frivole e inconsistenti, che si sgretolano in polvere e con cui è impossibile costruire nulla. Figuriamoci se possono allora intendere la distruzione della civiltà per opera dei nazisti. Ragazzi che vogliono a tutti i costi coltivare il miraggio di una vita facile e spensierata — letteralmente: senza pensiero — e per raggiungere questo obbiettivo eliminano tutto che gli è di intralcio, che avvertono come tale, e così eliminano parti di realtà, immiserendosi.

La dimensione autoreferenziale di questo “foraggiamento narcisistico” di un soggetto in realtà tristemente vuoto è già tutto contenuto nella parola “autoscatto”. Si può fotografare il mondo, prendere persino se stessi come oggetto, purchè lo scopo sia di creare interesse, di suscitare qualcosa. Ma in questo caso il mondo serve come sfondo per “un’iniezione narcisistica” a un soggetto che sente di essere insignificante. Sotto la maschera non c’è un volto, ma il bisogno di apparire in una posa per occupare un posto a causa della propria inconsistenza. Esibiscono se stessi senza alcuna cura, togliendo significato all’esibizione. Si annullano tramutandosi in ombre senza vita proprio davanti ai campi della morte.


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