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Una banda di briganti dell'Aspromonte fotografata all'inizio del 1880

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Quando si dice il contrappasso. Ieri, la Questione Meridionale. Oggi, la Questione delle sovranità.

L’Unione Europea di oggi è come l’Unità d’Italia di ieri.

A salvaguardia di quest’ultima – pur nella sua forma odierna di Repubblica – si raccolgono rivoltosi che sono parenti tutti, nella stessa fenomenologia, ai sanfedisti in lotta contro libertè ed egalitè, ovvero: “tu arruobbe a ‘mme, io arruobbe ‘tte”.

Nell’anno di grazia 2019 – in vista delle prossime elezioni europee – l’antica insurrezione contro lo Stato Nazionale si capovolge nella difesa dello stesso, dei suoi confini, della sua riserva aurea e della sua stessa identità.

Dimenticando – nel putipù di aggiornarla, l’insorgenza – di averli avuti devastati i confini.

Come i tesori, depredati. Con l’indebitato Cavour che può riprendersi dalle sue fruste grazie ai quattrocento milioni di ducati sottratti alle casse del felicissimo Regno delle Due Sicilie.

Per non dire della memoria – oltraggiata – per come nel frattempo il Sud è rimasto.

Il deserto sociale registrato dalle statistiche si specchia ancora nella vendemmia di Cesare Lombroso: teste di cafoni raccolte a grappoli, nella formalina, a dimostrazione della vocazione delinquenziale del Meridione.

Ed è sempre quello stesso luogo in attesa di redenzione dove i fondi europei – signora mia – non sono voci di bilancio nelle aziende ma sempre e soltanto righe di pece e peste nei mattinali di questura.

Quando si dice il progresso a due velocità, e questo è: una sottocultura – sovente sudata – bisognosa di civilizzazione. Ulderico Nisticò, sulfureo studioso, la spiega semplice: “È il senso di colpa di non essere nati a Milano”. E così ieri, figurarsi oggi e domani.

La storia della lunga durata è tutta qua.

La Francia che per tramite giacobino impone tasse ritorna nell’immaginario della polemica politica sotto specie di buro-tecnocrazia.

Li chiamarono… briganti, allora, per dirla col titolo di un film del 1999 di Pasquale Squitieri.

E questi briganti sono – “con le lacrime agli occhi, e il veleno nel cuore” – i sovranisti di oggi, altrettanto reietti.

A Parigi, dove regolano i conti con l’illuminismo nientemeno, indossano i gilet gialli; in Italia – sputacchiati tra i cascami del populismo – sono al governo ma nella formalina dei “vincoli europei”.

Già decapitati – poveri briganti, sovranisti immaginari – di ogni loro vero istinto: dai “no Euro” passati al “sì Euro”; dalla Via della Seta con la Cina – per reclamare, nel solco di Enrico Mattei, l’autonomia dei commerci – al solito babau yankee.

Mai stata predicatoria o noiosa, invece, l’azione politica dei briganti.

Fantasmi ammirevoli, affascinanti nella trasfigurazione cinematografica di un Amedeo Nazzari (Il Brigante Musolino di Mario Camerini, 1950), i briganti sono i nostri Robin Hood e lo furono davvero – “a chi ti leva il pane, levagli la vita!” – marchiati però quali malviventi dai loro nemici che restano ancora oggi abili nella guerra delle parole (l’Ur-Narrazione dell’ideologicamente corretto).

La prima pulizia etnica della modernità occidentale – accuratamente occultata nel fondo della coscienza nazionale – è tutta italiana e post-napoleonica o, meglio: liberale.

Consumata all’indomani dell’Unità d’Italia, la repressione delle popolazioni meridionali eufemisticamente dettata dalla Legge Pica promulgata dal governo Minghetti del 15 agosto 1863 “per la repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno”, scatena violenze e tragedie pari a quelle su cui oggi si esercitano pietosi i bravi borghesi, davanti ai loro televisori. 1035 esecuzioni in due mesi, 6564 detenzioni.

La Questione Meridionale è tutto un capitolo di rapina.

Gli “italiani”, gli “europei” di allora, che rubano l’oro a Dio e il pane ai poveri.

Ecco parte del bottino: i pastifici di Gragnano, le acciaierie di Pietrazza, le antiche ferriere di Mongiana sullo Ionio. Quella Calabria che, come spiega Ulderico Nisticò, “era ufficialmente indicata ancora nel 1870, ancora per poco dunque, come un’area ad alta densità industriale”. La città di Sarno, poi, oggi ricordata per l’inferno di fango e morte, era un gioiello agricolo. Terra di Lavoro, ancora, oppure San Leucio nel casertano – la filanda dove si lavorava la seta, una cittadella socialista voluta dal Borbone con le casette a schiera per gli operai – o gli straordinari Ponti alla Valle, l’acquedotto carolino che sovrasta la strada dove ci sono ancora le tracce dei soldati arrivati da ogni parte della Penisola per concludere la più incomprensibile delle guerre.

Una somma di ruberia e saccheggio che va a sommarsi al ferro e al fuoco.

All’origine della minorità sociale ed economica del Sud c’è un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e dall’emigrazione forzata: “O briganti, o emigranti”.

Social e volatile, invece, è lo stigma del sovranismo in assenza di sovranità. Ed è il passo falso del contrappasso. 


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