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Andrea Camilleri lascerà di sé tutto. Non porterà via nulla, perché tutto di sé è stato in grado di regalarci con la sua enorme generosità. E lo ha fatto con lo stesso animo puro dei bambini, con la stessa immensità del mago dei sogni, con la stessa capacità evocativa di un cantore omerico che trasformava le fabulae horribilis in miti pieni di stupore e meraviglia, pur continuando a dire e narrare in quelle vicende fatti non sempre edificanti per l’umanità.

Ho sempre considerato Andrea – nella vita, come nella scrittura – un nuovo aedo moderno. Egli è un cantore di storie, cantore di miti, cantore di una Sicilia senza più lutto che riconosce e ricostruisce come modello la sua terra nella immaginaria Vigàta. Il Cantore di Vigàta, appunto. Egli ha cantato non più la Sicilia delle lacrime che piange sulla sua inconsolabile tragedia, ma una Sicilia ironica e distaccata che riconosce finalmente di essere essa stessa causa del suo male, e ne rintraccia i germi in una prassi naturale al paradosso. Ciò non significava disconoscere il movente di un lutto legittimo e storico, ma, finalmente, non lamentarne più astrattamente la mancata soluzione.

Con la visione di Camilleri sono spariti di colpo dalla giaculatoria letteraria gli adagi del mondo offeso, del siamo come dei e via discorrendo. E’ come se si sia compiuta, sullo specifico tema Sicilia, certo grazie anche a scrittori come Vittorini e Tomasi di Lampedusa, una catarsi che, per corso naturale, ha illuminato il lato comico di quella malìa letteraria. Questa Sicilia, per certi versi anche un po’ ‘ridicola’ ( e so bene quanto questo termine possa suonare offensivo a molti siciliani ), un po’ caricatura di se stessa, un po’ per storia e per natura tragediatura, ma raccontata con gli occhi sinceri e non maliziosi di un siciliano.

Una Sicilia che oggi era necessario raccontare così, con gli occhi di un cantore. Questa Sicilia che non dimentica i morti, non dimentica i mali letali che cercano di consumarla inesorabilmente dal di dentro, che non dimentica il tradimento verso valori appartenuti ad essa quando era culla di una civiltà, questa Sicilia che oggi può senza timore ricominciare a parlare di se stessa con la necessaria ironia e distacco, affinché l’autocompiacimento delle virtù come dei vizi e dei dolori, non costituisca lo stagno dal quale diviene difficile uscire. Andrea ha permesso tutto ciò, e ci ha fatto il più prezioso regalo che un siciliano potesse agognare. Quando lo conobbi, più di trentacinque anni fa in Accademia “Silvio d’Amico”, di lui mi colpi la capacità di essere allo stesso tempo materialista e onirico, come pochi ne sono venuti al mondo nel corso dello scorrere delle generazioni umane.

Ti sapeva inchiodare ad un problema oggettivo, ma al tempo stesso, ti indicava la via d’uscita, che era quasi sempre quella del sogno, della visione, della pura immaginazione. Allora noi allievi ci sentivamo sedotti e elevati ad una rara prerogativa della formazione creativa quale voleva essere quella del corso di Regia in Accademia: essere gli artefici della biga alata del Fedro platonico potendoci lasciare andare al ludibrio dei sensi certi di essere temperati dalla disciplina della nostra anima. Quella biga, la sua biga, che oggi più che mai con i suoi cavalli ci trascina sia verso la thymoeidès (l’anima) sia verso epithymetikòn (la concupiscenza), corre inesorabilmente verso l’eterno e l’infinito guidandoci nella direzione di una vita libera dal lutto perpetuo, e ci insegna che essa, in tutte le sue declinazioni, è sempre e solo gioia.


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