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Una statua del II secolo dopo Cristo dell’imperatore Augusto

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Questo romanzo si fonda su un dato che vanamente cerchereste leggendo le poche narrazioni storiche pervenuteci riguardanti il lunghissimo “regno” di Augusto (secondo la versione storica “ufficiale”), dal 44 a.C. al 14 d.C.: l’uomo che avrebbe governato più a lungo nella storia millenaria dell’Urbe, e che ebbe il merito di unificare tutti i popoli e i territori del bacino del Mediterraneo.

Tuttavia numerosi indizi, lasciati a bella posta da Svetonio e forse anche da Cassio Dione (gli unici biografi antichi attendibili), convergono ad avvalorare l’ipotesi, da noi formulata, che non sia stata sempre la stessa persona a reggere per quasi sessant’anni le sorti della “Romana Res Publica”.

Per dare fede a quanto tramandatoci dalla storiografia “ufficiale” romana occorre considerare veri due eventi, di cui il primo è impossibile ed il secondo così improbabile da essere assimilabile al primo. Augusto, affetto, fin dalla più giovane età, da un’epatopatia cronica e successivamente forse da calcolosi biliare, degenerata col tempo in cirrosi, ebbe, da giovane, numerose gravi crisi, alcune nei momenti più importanti della vita, durante la prima battaglia contro Antonio, e ancora durante la prima battaglia di Filippi, e nel giorno del grande scontro navale di Nauloco, cercò di tener a freno il suo male, lo sappiamo da Svetonio, attenendosi ad una dieta a base di verdure e farinacei e astenendosi quasi del tutto dal vino.

Tuttavia pochi mesi prima del suo quarantesimo anniversario avrebbe avuto la crisi definitiva con setticemia e blocco renale, immaginiamo a causa di un ittero, conseguente all’intasamento delle vie biliari oppure per una gravissima insufficienza epatica, conseguenza della cirrosi, che appariva in stato avanzato, ben dieci anni prima, al tempo della campagna contro Sesto Pompeo, fu la sua fine?…

No, sarebbe invece guarito, liberandosi per sempre da ogni malanno epatico, grazie alla cura “prodigiosa” dal medico Antonio Musa, questa consisteva in una dieta a base di foglie di lattuga ed in immersioni in vasche d’acqua gelida.

Una “favola” del genere poteva essere creduta dagli antichi, che avevano cognizioni di fisiologia umana scarse ed opinioni, al riguardo, spesso fantasiose ed errate, non da noi moderni.

Dopo la crisi “definitiva” del 23 a.C. Augusto cambiò completamente obiettivi politici, comportamenti e cultura: prima aveva aspirato alla tirannide, sia pur fondata su di un consenso popolare di natura plebiscitaria, ed aveva osteggiato il patriziato. Dopo rinunciò alla nomina a “Dictator”, lasciò spontaneamente Roma ed il potere per almeno tre anni, e divenne amico del patriziato e strenuo difensore della cultura e delle tradizioni repubblicane, fu il protettore di Tito Livio, il più “democratico” degli storici latini (nei libri conservati della sua monumentale storia di Roma pochissime parole sono dedicate ai più illustri antenati della famiglia Iulia), volle addirittura che questi fosse il pedagogo dei due figli adottivi, Caio e Lucio.

Prima invece aveva costretto il sommo poeta Virgilio ad inserire nell’Eneide un lungo e stucchevole panegirico in suo onore e in onore del suo erede designato Marco Marcello. Fino al 23 a.C. era stato un duro guerriero, che amava il freddo ed andare a cavallo (emise un editto che vietava ai cittadini romani di girare per il Foro in inverno con mantelli pesanti), poi divenne freddoloso e mai più fu visto montare a cavallo.

Era stato un purista della lingua latina, mentre, a differenza del suo grande prozio Cesare, aveva scarse cognizioni di Greco, invece da anziano scriveva lettere in Latino piene di strafalcioni (Svetonio) e componeva all’impronta perfetti esametri greci. Possibile che il cupo tiranno affetto da cirrosi epatica ed il bonario poeta greco, in ottima salute fino a tarda età, fossero proprio la stessa persona?

Nessun personaggio storico ha mai avuto comportamenti così antitetici e contraddittori, neppure coloro che furono considerati dai contemporanei dei malati di mente, come Giorgio III d’Inghilterra e Carlo VI di Francia! Eppure tanto il giovane guerriero, pronipote e vindice del grande Cesare, quanto il magnanimo poeta, amico del Senato e protettore dei convinti “repubblicani” Tito Livio e Messala Corvino, apparivano, a tutti, ed in ogni occasione, come persone certissimamente savie.

Come potrebbero essere andate le cose? Negli ultimi anni di vita l’Augusto s’era procurato un sosia, che lo sostituisse, quando egli era impossibilitato a causa degli attacchi del suo male o non voleva correre rischi, durante battaglie e in altre circostanze rischiose.

Anche Cesare aveva usato codesto artifizio, adoprato sembra anche da Napoleone e Garibaldi. Negli ultimi momenti di vita dell’Augusto Mecenate decise di fingere una guarigione del Principe e di far apparire in pubblico il Sosia in luogo del defunto, al fine di guadagnar tempo per preparare al meglio l’ascesa al potere supremo di Marco Marcello.

Ma l’improvvisa morte per polmonite del giovane costrinse la famiglia Iulia ad impiegare la copertura del Sosia, per tutti gli anni a venire, perché Agrippa, il vero successore di Augusto, essendo nipote di un liberto, non poteva sperare di farsi obbedire dall’orgogliosa nobiltà senatoria, se non spalleggiato dal falso Augusto.

Perché allora gli storici, tanto antichi quanto moderni, non si sono accorti dei misteri irrisolvibili, delle contraddizioni inestricabili con cui ci si deve confrontare, se non si prende in esame l’ipotesi che il vero Ottaviano sia stato sostituito da un sosia, dopo la sua morte, avvenuta non nel 14 d.C. (questa è la data di morte del sosia), ma già nel 23 a.C., pochi mesi prima della scomparsa del nipote, Marcello, il ragazzo che egli aveva predestinato a succedergli?

La risposta probabilmente sta nel fatto che, di regola, gli storici hanno una mentalità da pedanti, da eruditi, che discettano con accanimento riguardo a dei particolari, talvolta insignificanti, dando per scontato il contesto generale, oppure hanno una mentalità più vicina a quella degli avvocati che non a quella degli investigatori. Mirano a sostenere una tesi, cercano di trovare conferme per le loro idee politiche e morali, non hanno passione per la ricerca disinteressata della verità.

Gli antichi storici, quand’anche avessero saputo (Svetonio) o sospettato (Cassio Dione), certo mai avrebbero potuto raccontare la verità, senza delegittimare il potere degli Imperatori, cosa ovviamente proibita e per la loro sopravvivenza e per quella delle loro opere, quindi pericolosissima.

L’ostacolo in cui si sono imbattuti gli storici moderni è la relativa scarsezza d’informazioni circa la vita e le imprese di Caius Octavius, che poi, per delibera del Senato, prese il nome di ”Caius Iulius Caesar Octavianus” o “Caesar Filius”, a causa dell’adozione “post mortem” da parte del “divus Iulius”, ed infine ebbe il cognomen onorifico di “Augustus”, titolo “sacrale” che ricevette dal Senato nel 27 a.C., su proposta di Munazio Planco.

Se vogliamo conoscere la vita di Giulio Cesare abbiamo a disposizione molteplici strumenti, i più importanti sono: le due ampie biografie di Svetonio e di Plutarco, inoltre due opere autobiografiche, il De Bello Gallico e il De Bello Civili, altre opere di collaboratori suoi contemporanei pervenute fino a noi oppure riassunte e/o citate da autori successivi (è il caso delle “Storie” di Asinio Pollione ampiamente citate da Appiano).

Invece per conoscere le vita di Augusto non possiamo contare sull’opera di nessun suo contemporaneo. I molti libri dedicati da Tito Livio ai primi trentaquattro anni di governo di Ottaviano (la grandiosa narrazione liviana si interrompeva al 9 a.C., alla morte di Druso) rimangono soltanto sotto forma di Perioche (indici degli argomenti principali trattati) e, cosa davvero inquietante, manca ogni traccia dei libri 136° e 137°, quelli in cui si narrava del periodo di supremazia di Vipsanio Agrippa e di volontario esilio ed eclissi politica di Ottaviano, tali libri furono, evidentemente, fatti sparire subito dopo la loro redazione, da Tiberio o Caligola…

Questa strana reticenza degli storici antichi a parlare di lui già dovrebbe metterci in sospetto: egli doveva apparire un personaggio difficile da descrivere, da intendere, da far capire. Anche Tacito non volle parlare di lui: quando si accinse a narrare negli “Annales” tutte le malefatte della famiglia imperiale Giulio-Claudia. Egli aveva scelto ironicamente l’andamento di anno in anno, come una commemorazione sacrale ed onorifica, ma evitò di parlare di Augusto, si limitò a riferire i discorsi tenuti su di lui dai detrattori e dagli estimatori, durante i funerali.

Sospese il proprio giudizio, insomma si dichiarò implicitamente incapace a cogliere la natura ultima, di un personaggio che appariva a lui e a tutti comunque estremamente contraddittorio.

Soltanto due non sintetiche narrazioni attendibili sulla vita e le opere di Augusto sono arrivate sino a noi. Una è la biografia di Svetonio, scritta però non con andamento cronologico, ma per argomenti (le guerre, le riforme apportate nei vari campi, le opere pubbliche, i rapporti con gli amici, etc…), in essa si tace della “fuga” da Roma nell’anno 22 a.C. e del ritorno solo tre anni dopo nel 19, ma si rivela che egli, come Cesare, teneva un diario delle proprie imprese, che stranamente però s’interrompeva nell’anno 23 a.C. L’altra sono i libri dedicati al periodo da Cassio Dione Cocceiano, un “romano” d’Asia, di Bitinia precisamente, vissuto sotto la dinastia dei Severi, scrisse, nella sua lingua, il Greco, una “Storia di Roma” in ottanta libri da Enea fino ai suoi giorni (al 229 d.C.), non tutta la sua mastodontica impresa letteraria si è conservata, ma i libri dedicati al periodo augusteo sì.

Il racconto di Cassio Dione, l’unico che ci dà contezza del temporaneo ritiro a vita privata dell’Augusto, non può considerarsi frutto di uno studio particolarmente approfondito, data la sconfinata ampiezza del progetto di narrazione storica e la lontananza temporale dagli eventi narrati (oltre due secoli!); tuttavia anche lui ha parole ambigue, sibilline nel descrivere la malattia del 23 a.C. ed ammette che le cure del medico Musa (lattughe e bagni freddi) non potevano esser state causa della guarigione. Racconta che l’Augusto aveva fatto testamento ed interrotto “le funzioni più necessarie”: non mangiava più e forse non urinava più.

Quanto poi alla narrazione dello storico asservito al regime di Tiberio Velleio Patercolo ed alla lunga epigrafe, nota come “Divi Augusti Res Gestae”, si tratta di opere nient’affatto attendibili.

La descrizione sintetica della vita e delle imprese di Ottaviano, fatta incidere su lastre di bronzo dal suo successore, Tiberio, le “Res Gestae”, è palesemente reticente e mendace.

In essa si dichiara che nel 27 a.C. il figlio adottivo di Cesare avrebbe restituito pienezza di poteri al Senato, per divenire un cittadino come tutti gli altri, dotato soltanto di una superiore autorità morale; così nel breve testo si riserva grande importanza alla nomina a Pontefice Massimo, per ribadire la superiorità esclusivamente spirituale dell’uomo. Invece Augusto dopo il 27 a.C. aveva mantenuto poteri del tutto straordinari: il diritto di veto su qualsiasi delibera del Senato che non fosse di suo gradimento (“tribunicia potestas perpetua”), il comando supremo su tutti gli eserciti dell’Impero ed il dritto a nominare i governatori di tutte le province, ove erano stanziati i grandi assembramenti di truppe (“imperium proconsulare maius et infinitum”).

A riprova del fatto che le “Res Gestae” sono opera di Tiberio e non dell’uomo di cui parlano vi è un recente ritrovamento: su di un papiro è stato rinvenuto un frammento dell’orazione funebre tenuta da Augusto (il secondo, il sosia del primo) per Agrippa nel 12 a.C., in tale frammento si parla senza reticenza dei poteri straordinari ottenuti, sia pur per “consenso di tutti gli uomini”, tanto dal defunto, Agrippa, quanto dall’uomo che teneva l’orazione.

Paradossalmente conosciamo, grazie alle ottime biografie di Plutarco, assai meglio la vita degli sconfitti, Bruto, Cicerone e Antonio che non quella dell’uomo che li ha vinti e spazzati via, dell’uomo che cambiò il destino di Roma e del mondo.

Attraverso questo romanzo abbiamo una ricostruzione storica sicuramente più “credibile” di tutte le altre, alle quali va attribuito il limite di aver accettato acriticamente il materiale tramandatoci dagli antichi, che, come abbiamo visto, è menzogna (“Res Gestae” e Velleio), è stato fatto sparire (Livio), è volutamente reticente, sebbene ricco di indizi inquietanti (Svetonio), è poco approfondito e troppo lontano dagli eventi narrati (Cassio Dione).


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