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Antonio Giordano

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«Gli effetti della riapertura sono imprescindibili dalle misure che adotterà il governo ma anche dal comportamento della popolazione. Per proteggere la nostra salute dal virus, in questa fase della pandemia, possiamo contare su due strumenti: la diagnosi precoce e le misure di distanziamento sociale. Per evitare la risalita del contagio è necessario mantenere alto lo stato di allerta ed allentare le restrizioni a step, monitorando sempre accuratamente la situazione».

La sanità del Mezzogiorno sarebbe in grado di fronteggiare una nuova ondata?

«La semplice riduzione della modalità di trasmissione del virus può far sì che ad ottobre ci sia una seconda ondata. Ma lo scenario della pandemia cambia di settimana in settimana, quindi, per ora si deve procedere senza escludere alcuna possibilità. Il Sud, ad oggi, è riuscito a contenere e limitare i danni del coronavirus. Come napoletano, sono orgoglioso della sanità campana, elogiata in tutto il mondo ed individuata come eccellenza per la qualità dei medici, e delle università che svolgono attività di ricerca. Il problema che potrebbe vivere questa regione, ove mai si allentassero le misure già intraprese, è legato alla densità della sua popolazione».

Ricercatore, patologo, genetista, oncologo, il professor Antonio Giordano, 57 anni, è direttore del Institute for Cancer Research and Molecular Medicine di Philadelphia. Una di quelle “eccellenze” che il nostro Mezzogiorno ha diffuso per il mondo e che però restano legate al territorio. Il professore vive a Philadelphia ormai da molti anni.

«Il Covid-19 ha ormai colpito tutti i 50 Stati americani, il virus si è diffuso nell’intero territorio statunitense e anche l’America sta cercando di contenere l’epidemia di coronavirus attuando ampie restrizioni su ogni aspetto della vita pubblica, adottando misure drastiche e ponendo una stretta a livello federale. L’amministrazione Trump ha proposto un  intervento di circa 850 miliardi di dollari per un sostegno diretto ai cittadini e all’economia. L’epidemia sta mettendo a nudo i limiti di un sistema sanitario privatistico».

Con i dati accumulati fino ad oggi potrebbe riassumerci le varie fasi che hanno caratterizzato la diffusione?

«Il corso del virus SARS-CoV-2 comincia a Wuhan e sconvolge la popolazione mondiale. Analizziamo per gradi la situazione, partendo dalla biologia del virus, dalla sua manifestazione clinica per arrivare agli effetti che ha determinato sugli stili di vita, sulla sanità e sull’economia. SARS-CoV-2 è partito come zoonosi, ossia come una malattia che può trasmettersi dagli animali all’uomo. Il salto di specie, conosciuto dagli addetti ai lavori come “spillover”, ha concesso al virus di passare, stabilizzarsi e diffondersi tra gli individui della nuova specie. Grazie all’isolamento della sequenza virale possiamo dire che questo virus presenta circa il 96% di omologia con un  Betacoronavirus (RaTG13) del pipistrello Rhinolophus, chiarendo che sia frutto di una selezione naturale. La malattia Covid-19, causata da un virus appartenente alla stessa famiglia del virus della SARS, può dare luogo a manifestazioni cliniche molto simili a quelle dell’influenza. Ma purtroppo, oggi, sappiamo bene che oltre a raffreddore, tosse secca, febbre, stanchezza è responsabile anche di polmonite interstiziale, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale e, persino, morte. Pertanto, Covid-19 è tutt’altro che la classica influenza di stagione. Facendo un’analisi retrospettiva, analizzando i casi di polmonite registratisi prima di febbraio, possiamo dire che dalla seconda metà di dicembre centinaia di portatori asintomatici, o lievemente sintomatici, di Sars-Cov-2 “giravano”, probabilmente, per l’Italia e per il mondo. La patologia Covid-19 presenta una serie di complicazioni che conducono al sopraggiungere di una insufficienza respiratoria tale per cui si richiede l’assistenza ventilatoria, volta a fornire ossigeno e smaltire l’accumulo di anidride carbonica. Sono necessarie, cure intensive ed un elevato numero di personale medico e paramedico dedicato. Questo ha creato un sovraffollamento delle strutture ospedaliere che, non essendo equipaggiate adeguatamente sono divenute esse stesse focolai di infezione».

Di chi è la colpa?

«Non è il momento delle polemiche, ma è evidente ormai, che se si fosse agito tempestivamente, gestendo meglio il contenimento sociale, imponendo da subito il lockdown, se avessero attrezzato gli ospedali di DPI, sicuramente staremmo assistendo a scenari diversi. Parlare a posteriori, però, è sempre più semplice; la pandemia e la chiusura totale avranno pesanti ripercussioni sull’economia mondiale. Di qui una certa pressione ed una certa fretta nel rilanciare l’economia, e riaprire fabbriche. Sarebbe opportuno identificare un test unico, con appropriata sensibilità e specificità, evitando la frammentazione tra regioni e tra paesi».

L’oggetto del desiderio oggi ha un nome: “vaccino”.

«Covid-19 ha messo incessantemente a lavoro gli scienziati. Si studia giorno e notte per identificare un vaccino, una cura, per capire il virus e poter diffondere informazioni adeguate a riguardo. Innanzitutto, sia che si tratti di un vaccino o di un farmaco specifico è necessario studiare la malattia per trovare la cura. Per poter parlare di vaccino, poi, abbiamo bisogno di sapere se le persone guarite sviluppino anticorpi diretti anti- SARS-CoV-2 e se questi siano in grado di bloccare il contagio. Per farlo abbiamo bisogno della sperimentazione animale e di tutta la fase pre-clinica e clinica. Per ottenere l’antidoto tanto desiderato sono necessari tempi più o meno lunghi per garantire l’efficacia e, contemporaneamente, la sicurezza per la popolazione mondiale. Un vaccino efficace porrebbe  fine in modo permanente al problema COVID-19 ma bisogna tener presente che i vaccini contro i virus ad RNA sono difficili da ottenere, ripeto difficili non impossibili. Un chiaro esempio è rappresentato dal vaccino anti-HIV.  Si cerca da anni ma, ad oggi, non è stato possibile produrne uno in grado di neutralizzarlo. Attualmente, sono in fase di sperimentazione svariati composti, alcuni off-label che, come tali, non hanno alcun effetto sul virus. Ad esempio: il Tocilizumab, anticorpo monoclonale, già utilizzato nel trattamento di altre patologie come l’artrite reumatoide, sarebbe in grado di contrastare l’eccessiva risposta autoimmune scatenata dal virus e ridurre i sintomi respiratori; Remdesivir, un antivirale sviluppato per il trattamento delle infezioni da virus Ebola, sarebbe promettente anche contro altre infezioni da virus a RNA. La Clorochina, un antimalarico, e’ stato recentemente segnalato come potenziale farmaco antivirale ad ampio spettro. Con la dovuta cautela, se con l’utilizzo di alcuni di essi si iniziano a vedere i primi risultati positivi. Speriamo che il caldo e la scienza cooperino per debellare il virus e restituirci la normalità!».

 Recentemente è stato nominato membro del Comitato scientifico dell’Istituto Superiore di Sanità come rappresentante del ministero dell’Ambiente per studiare il rapporto tra ingiurie ambientali e patologie umane. Esiste anche una possibile correlazione tra inquinamento ambientale e diffusione di virus pandemici?

«Da mio padre, anch’egli eccellente medico napoletano, ho ereditato la passione e l’ impegno a sostenere le esigenze di sviluppo e di progresso dell’Italia meridionale. Da qui nasce la mia determinazione nel provare a contrastare il fenomeno definito come “Terra dei Fuochi”, che sta affliggendo la Campania da decenni. Ma questo impegno si estende a tutta la mia attività di ricerca, supera i confini italiani, perché la contaminazione ambientale da agenti potenzialmente nocivi per la salute umana è ormai una problematica di rilievo mondiale. Questo nuovo incarico è quindi per me un ulteriore stimolo per implementare a studiare come contrastare l’inquinamento ambientale. L’inquinamento ambientale può in qualche modo influenzare la pandemia? Facciamo qualche considerazione, partendo sempre dal presupposto che Covid-19 è una malattia giovane, ogni valutazione è sempre ongoing, necessita di studi di correlazione approfonditi. Si può, però, provare ad analizzare la situazione valutando i dati presenti in letteratura scientifica sui coronavirus e sull’inquinamento atmosferico. I coronavirus provocano, in genere, affezioni alle vie respiratorie, poiché si replicano nelle cellule epiteliali dell’apparato respiratorio inducendo cambiamenti citopatici che sfociano molto spesso in polmoniti più o meno gravi. Il quadro clinico del Sars-CoV-2 ricorda sicuramente quello della Sars-CoV; sono comunque virus appartenenti alla stessa famiglia. Riguardo quest’ultimo, è stato condotto uno studio per valutare la correlazione tra indicatori di inquinamento dell’aria e mortalità da SARS in Cina (2002-2003), che ha mostrato come il rischio di mortalità era amplificato nelle aree a più alto inquinamento rispetto a quelle con qualità dell’aria migliore.  Un secondo aspetto da considerare riguarda, invece, la ben nota correlazione tra presenza di elevate  concentrazioni  di  inquinanti  in  aria  ed aumento di patologie dell’apparato respiratorio (anche nei bambini). Gli inquinanti ambientali, come particolato fine (PM2.5), NO2 o O3, causerebbero la contrazione dei muscoli delle vie aeree o il restringimento delle stesse compromettendo la funzionalità polmonare e rendendo la popolazione esposta cronicamente meno in capace di rispondere ad eventuali insulti patogeni (questo è noto, ad esempio, per patologie indotta da virus respiratori sincizialli delle bronchioliti). Classicamente l’approccio epidemiologico studia degli effetti dell’inquinamento atmosferico distinguendo le esposizioni acute (a breve termine) da quelle croniche (a lungo termine). Una esposizione cronica altera sicuramente lo stato di salute delle persone e le persone più anziane rappresentano il maggior numero di vittime del Covid-19. Tra le varie comorbidità presenti nelle persone anziani, potrebbe anche inserirsi l’indebolimento del sistema sanitario innescato dall’inquinamento ambientale. Dall’altro canto c’è anche una nuovissima ipotesi, ossia che sempre un’esposizione di tipo cronico, comporti in qualche  modo  una alterazione  della risposta immunitaria delle cellule polmonari che si adatterebbe ad una tolleranza “indotta”. Possiamo concludere dicendo che  un alto tasso di inquinamento dell’aria può contribuire come fattore peggiorativo in casi di epidemie e che l’inquinamento potrebbe essere uno dei co-fattori che ha contribuito alla diffusione del virus».


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