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L’Italia riparte, il Sud no. Gli ultimi dati sul Pil delineano, ancora una volta, un Paese a due velocità. C’è una parte che, sia pure lentamente, ha invertito il trend ed è uscita dal tunnel della recessione. E c’è un’altra Italia, quella del Mezzogiorno, che continua ad arrancare e che, almeno per ora, chiuderà il 2019 con una crescita negativa. Cioè, resterà nella palude della recessione.

LEGGI L’EDITORIALE DEL DIRETTORE ROBERTO NAPOLETANO
CHE SI CHIEDE COSA SUCCEDEREBBE SE MORISSE IL POVERO (SUD)

Ieri l’Istat ha infatti diffuso i numeri del Pil nel primo trimestre del 2019. Cifre che segnano una netta inversione di tendenza rispetto ai due semestri precedenti, entrambi negativi, che avevano portato l’Azienda Italia nel poco invidiato club dei Paesi in recessione. Certo, non sono numeri da exploit, il Pil si è mosso di appena lo 0,2% rispetto ai tre mesi precedenti mentre la variazione acquisita per il 2019 è solo dello 0,1%. Ma quello che conta, soprattutto per gli operatori finanziari, è il segno più davanti ai decimali. E si tratta di un risultato che non va assolutamente sottovalutato.

PAESE A RISCHIO STOP

L’incremento, si legge nella nota diffusa dall’istituto di statistica, è però dovuto soprattutto alla componente estera, all’export. Mentre la domanda interna continua a segnare il passo. Due elementi che, di fatto, portano gli esperti della Svimez a confermare, almeno per il momento, che nel Sud la musica sarà diversa e che il 34% del Paese dovrà continuare a tirare la cinghia. Secondo, infatti, il modello econometrico utilizzato dall’associazione guidata da Adriano Giannola, nel 2019 il Pil del Centro-Nord crescerà dello 0,2%. Mentre, quello del Sud, calerà di due punti percentuali. Risultato, il gap fra le due Italie tornerà a crescere. E’ qui, insomma, che il Paese – tutto – rischia di fermarsi. Ed è proprio da qui, come ha sottolineato ieri sul Quotidiano del Sud, Fabrizio Galimberti, nella sua lettera aperta al governo, che bisognerebbe ripartire. Risolvendo, ad esempio, le tre questioni strutturali ancora aperte e che, di fatto, impediscono al Sud di uscire dalla recessione. Con effetti a cascata anche sulla ricchezza dell’intero Paese. Ma andiamo con ordine.

LO SCIPPO

Lo scippo della spesa pubblica. 61,5 miliardi: ecco la dote che ogni anno, con destrezza ma anche con semplicità, il Nord strappa al Sud. Un meccanismo perverso, rivelato dal direttore del Quotidiano del Sud, Roberto Napoletano, per cui se nasci a Reggio Calabria, asili e mense scolastiche le vedi solo con il binocolo mentre, se ti trovi in Emilia o in Brianza hai addirittura l’imbarazzo della scelta.

Il segreto di questo “scippo” scientifico, consumato quotidianamente sulla pelle dei meridionali, ha un nome e un cognome: spesa storica (LEGGI L’INCHIESTA). Vale a dire, quel meccanismo che redistribuisce le risorse sulla base della capacità di utilizzare le risorse a disposizione. Il risultato, documento dalla Svimez, è che considerando l’intero perimetro della spesa pubblica allargata, al Mezzogiorno tocca solo il 28,3% delle risorse anche se ha una popolazione pari al 34,3% del totale nazionale. Situazione che si capovolge nel Centro-Nord che, con una popolazione pari al 65,7% incassa il 71,7% delle risorse. Insomma, il Sud prende il 6% in meno di quello che gli spetta e il Nord il 6% in più. Tradotto: più risorse a chi è già ricco e meno a chi è povero.

LA REGOLA VIOLATA

Investimenti, la regola violata. Nell’ultima Finanziaria il governo ha finalmente deciso di inserire una norma che dovrebbe stabilire una verità quasi banale: destinare al 34% della popolazione il 34% degli investimenti pubblici. A cominciare da quelli che hanno in programma Anas e Ferrovie. Proviamo a fare qualche conto: Se negli ultimi cinque anni avessimo applicato questa regola il Sud avrebbe avuto 25 miliardi in più da destinare alla crescita e oltre trecentomila posti di lavoro. Guadagnando oltre cinque punti di Pil e riducendo del 40% l’emorragia di posti di lavoro, soprattutto negli anni più duri della crisi. Fra il 2001 e il 2015, come hanno documentato gli esperti della Svimez, gli investimenti con risorse ordinarie destinate al Sud non hanno mai superato il 21%, oltre 13 punti percentuali in meno rispetto a quanto dovuto. Nello stesso periodo, invece, il Nord ha incassato la parte più consistente della spesa in conto capitale, arrivano quasi al 79%. Tradotto in soldoni, nel Sud mancano all’appello circa 3 miliardi di investimenti pubblici all’anno.

L’ANNO ZERO

Cantieri e sanità, anno zero. Tutto questo non è solo teoria, non si tratta semplicemente dei soliti ragionamenti di economisti, magari iscritti obbligatoriamente alla vecchia categoria dei meridionalisti. No, queste cifra hanno un effetto immediato sull’economia reale e sulla vita dei cittadini. Vediamo, ad esempio, quello che succede sul fronte delle grandi opere pubbliche. Al 34% della popolazione è riservato appena il 10% dei cantieri aperti. Il resto è destinato al Centro- Nord, 52,4 miliardi contro 7,1. Non c’è partita. Per non parlare delle “incompiute”, vale a dire le opere bloccate o in bilico: l’asso-pigliatutto è ancora una volta il Nord, con 16 cantieri per un totale di 16 miliardi. Al Sud solo le briciole: 3,1 miliardi. Conclusione: se domani ripartissero davvero tutte le grandi opere, il Pil diventerebbe più ricco di 86 miliardi, per la gioia di tutti, creando circa 380mila posti di lavoro.

La quota destinata al Sud sarebbe di poco superiore ai 50mila occupati. E la musica, sia pure con grandezze diverse, non cambia neanche se dal mattone ci spostiamo alla sanità. Bastano pochi dati per fotografare il fenomeno. In Puglia, con 4 milioni e centomila abitanti, i dipendenti del servizio sanitario regionale sono 40mila. In Emilia Romagna, con 4,4 milioni, l’organico sale già a 55mila. In Piemonte, con 4,3 milioni, si assestano a quota 50mila. Stesso copione per il riparto del Fondo Sanitario Nazionale di quest’anno: alla Puglia sono stati destinati 7 miliardi e 362 milioni, all’Emilia Romagna 8 miliardi e 259 milioni. Infine, al Piemonte, 8 miliardi e 200 milioni. E, il gap, potrebbe addirittura peggiorare se dovessero essere accolte le richieste delle Regioni del Nord che vogliono l’autonomia differenziata per poter spendere in proprio tutte (o, quasi) le tasse raccolte sul territorio. L’esatto contrario di quello che servirebbe per avere un Paese che esce, tutto insieme, dalle sacche della recessione.


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