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La concorrenza sleale di una bella fetta delle partecipate pubbliche nei confronti delle aziende private è smaccata. Se la pubblica amministrazione affida direttamente lavori e commesse alle società di cui detengono una quota del capitale, fregandosene bellamente delle gare, vuol dire tagliare fuori gli imprenditori che lavorano onestamente sul mercato e ne rispettano le regole.

L’INCHIESTA: PARTECIPATE, VAMPIRI CHE DISSANGUANO IL SUD

E’ stato lo stesso ministero dell’Economia a denunciarlo: la modalità di affidamento dei servizi alle partecipate pubbliche avviene direttamente nel 94% dei casi e solo per un misero 6% tramite gara d’appalto. E non è affatto detto che questa stortura si possa raddrizzare. Perché è anche da qui che nascono le famose mazzette. Qualche imprenditore, pur di ottenere un incarico diretto e tenere in piedi la propria azienda, ricorre alle bustarelle, e i politici di turno ingrassano e prosperano.

IL BOOM DEGLI AFFIDAMENTI DIRETTI

«In Italia c’è l’emergenza corruzione» ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, commentando i domiciliari del sindaco leghista di Legnano, Gianbattista Fratus, accusato di aver pilotato le nomine delle principali società partecipate dal comune. Meno male che se n’è accorto. Se invece di alzare da 40mila euro a 150mila la soglia entro cui si possono affidare direttamente i lavori senza una gara formale, come è invece possibile dallo scorso gennaio, se le gare fossero obbligatorie ma snelle, funzionassero a dovere e fossero realmente trasparenti e a prova di furbetto, il problema verrebbe ampiamente arginato.

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Fino al 2018 c’è stato un vero e proprio boom di affidamenti diretti per importi fino a 39.900 euro. Scommettiamo che a fine anno, improvvisamente, comuni e regioni sentiranno urgente necessità di affidare lavori fino a 149.000 euro? Tra l’altro non sono poi tante le società partecipate che offrono servizi di pubblica utilità e che, se lasciate ai privati, costerebbero troppo o non sarebbero offerti perché, come si dice in gergo, “a fallimento di mercato”. Ci sono addirittura srl legate ai comuni che si occupano di filmografia o insegnano teatro.

Ma per risolvere il problema servirebbe una reale volontà politica che sembra mancare. D’altra parte le partecipate pubbliche distribuiscono stipendi per 11 miliardi l’anno (fonte Centro studi Unimpresa) e spesso questo dato si traduce in voti, oltre a vantaggi personali di altro genere. Sono 4.217 quelle che hanno presentato i bilanci 2014 con debiti accumulati per 83 miliardi e perdite nell’ultimo anno pera 962 milioni.

IL FLOP

Il tentativo governativo di tagliare la spesa pubblica tramite la drastica riduzione delle partecipazioni che fanno capo alle amministrazioni locali, sta miseramente fallendo. Metà dei Comuni e degli enti pubblici che hanno azioni o quote di società esterne, hanno candidamente dichiarato al Tesoro di non aver alcuna intenzione di procedere alla “razionalizzazione” di queste partecipazioni. Per loro, sono fonte di ricchezza: sociale, nella migliore delle ipotesi, perché possono piazzare i loro amici e colleghi sulle poltrone chiave, economica in senso stretto per le ovvie conseguenze derivanti dai lavori a loro affidati. Le partecipate infatti sfuggono, come abbiamo sottolineato, alle maglie sempre più strette di controllo della spesa, fatta con i nostri soldi. E’ facile immaginare fin dove le amministrazioni pubbliche possono arrivare. In effetti, basta leggere le cronache giudiziarie, purtroppo solo la punta dell’iceberg.

IL CASO VERONA

La capacità delle partecipate di moltiplicare le poltrone sotto il sedere dei politici di turno e dei loro amici è da libro di scuola. Negli anni si è così affinata da diventare un’arte, consacrata persino dentro le mura di molti municipi che hanno dato il loro nome, autonomo o condiviso, a un assessorato. Come a Verona. Dal 2017 il sindaco della città veneta è Federico Sboarina, mentre l’assessore Daniele Polato ha la delega per la gestione delle Partecipate.

E’ successo che il Centro di educazione artistica “Ugo Zannoni” (Cea), nato nel 1995 con il Comune socio fondatore e di cui il sindaco è presidente, non presenta più i bilanci. Il motivo è che i resoconti del 2017 e del 2018 non sono stati approvati. Eppure, in barba a ogni regola di buona gestione, il Comune ha staccato un assegno al Cea da 10.500 euro.

A quale titolo non è dato saperlo o almeno Flavio Tosi, ex primo cittadino della città scaligera ora consigliere di minoranza, non lo sa. Tosi però denuncia l’accaduto, e lo fa adesso perché, pur avendo chiesto di accedere agli atti lo scorso febbraio, gli è stato concesso solo nei giorni scorsi. Ciò che è saltato fuori è che i bilanci dei due anni non sono mai stati approvati perché mancava un revisore dei conti. «Il Cea da due anni non presenta e non approva i bilanci, ma intanto riceve soldi dallo stesso Comune – dice Tosi ai microfoni di Verona Network – Questo è contro le regole e ne sono responsabili, oltre a Sboarina, l’assessore alle Partecipate Polato e l’assessore all’Istruzione Bertacco, delegato al Cea da Sboarina. Questa vicenda si aggiunge alla disastrosa gestione degli enti partecipati dell’amministrazione Sboarina, tra il buco di oltre due milioni di euro in Amia, il caso Croce in Agsm e il controverso licenziamento della Motta in Agec che è costato un sacco di soldi ai cittadini veronesi». Piccolo esempio, ma esemplificativo su come manchino i controlli sulle partecipate.


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