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Roberto Fico

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Sarà per le fotine con la didascalia dei loro nomi pubblicate in questi giorni su questo giornale. Sarà perché gli elettori che li hanno scelti per rappresentare il Sud in Parlamento cominciano a chiedergliene conto. O perché siamo in dirittura d’arrivo e il tempo sta per scadere. Ma i parlamentari del fronte del no all’autonomia ladrona hanno moltiplicato le loro voci. A partire dal presidente della Camera Roberto Fico che – intervenendo a un evento all’Aquila –  è sceso in campo. Ha ricordato che l’accordo che sarà firmato sulle autonomie – se sarà firmato – dovrà tener conto del ruolo del Parlamento, «perché quando trasferiamo funzioni legislative alle regioni – ha detto – non lo si può fare solo tramite intese tra Governo e regioni». E per essere chiaro fino in fondo lo ha ripetuto chiaro e tondo: «Le funzioni devono essere trasferite dal Parlamento italiano che ha in capo la funzione legislativa, tutto si deve fare solo tramite passaggi corposi, veri e forti, all’interno del Parlamento».

AUTONOMIA DIFFERENZIATA MA NON TROPPO

Parole dette a nuora perché suocera intenda. Cioè la ministra leghista degli Affari regionali Erika Stefani. Non dovrà apportare solo qualche correzione qua e là al testo pasticciato portato in Consiglio dei ministri martedì scorso. Lo dovrà riscrivere di sana pianta, cancellare proprio quei punti che ritiene cruciali. Un’autonomia differenziata ma non troppo, insomma. Più simile a quella chiesta dall’Emilia-Romagna, che chiede il trasferimento delle competenze su 15 materie lasciando fuori l’istruzione e senza costi aggiuntivi per le casse dello Stato, che alla Catalogna.

Il tentativo – scomposto – della ministra leghista è riuscito a mettere d’accordo personalità politiche tra loro molto diverse per origine e provenienza.

ITALIA SPACCATA IN TRE

Mara Carfagna, coordinatrice nazionale di Forza Italia, ad esempio, non ha nulla contro un moderato federalismo che tenga conto della diversità dei territori.  Il resto però non le va giù: «Bisogna far sì che anche quelli più poveri, con minor capacità fiscale, dove quindi si versa meno, possano aver accesso ad asili nido, scuole, trasporti». Sembrerebbero parole scontate, l’enunciazione dell’art. 3 della Costituzione. Eppure sono suonate come parole forti. «Usare i meccanismi costituzionali per consumare forme più o meno velate di secessione è una follia – ha detto ancora la vice-presidente della Camera – Avremmo  regioni a statuto speciale,  regioni autonome e  altre regioni. Spaccheremmo l’Italia in 3 e questo non è possibile».     

Laura Castelli, vice-ministro all’Economia, è entrata nel dettaglio quasi a voler indicare i punti cruciali sui quali un accordo con l’alleato di governo è molto lontano. «Dobbiamo superare alcune questioni reali che non sono capricci, molti di questi punti non sono mai stati affrontati. Sull’autonomia incombe il problema della spesa pubblica, la richiesta di fondi che oggi sono ripartiti su base progettuale o con altri criteri e che invece ci viene chiesto di gestire su base regionale».

Sull’altro fronte prevale irritazione per il colpo di mano che poteva esserci e non c‘è stato. La Stefani in queste ore è stata di fatto commissariata. I tecnici sono al lavoro per annacquare e rendere più presentabile il testo da riproporre mercoledì prossimo in Cdm. In quanto al governatore lombardo Attilio Fontana, forse il più deluso per lo stop   alla secessione, le parole urticanti delle prime ore sono state sostituite da un fideistico ottimismo: «Salvini è una persona seria: il processo di Autonomia andrà in porto. Io mi fido».


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