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Un treno alta velocità

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Cristo si era fermato a Eboli. L’alta velocità ferroviaria si ferma a Salerno, 36 km prima. Non esiste al mondo una forma di discriminazione territoriale così grave, amplificata dal voto del Senato che non stoppa la Torino-Lione. Il Tav si farà, ed è un bene per il Paese: l’Italia resta agganciata ai grandi corridoi europei. Il rischio è che il Mezzogiorno si stacchi definitivamente dal resto del Paese a causa di una politica sensibile solo agli interessi a Nord del Po. La commedia sul Tav cela un clamoroso paradosso. Un’infrastruttura fortemente avversata, fino a mettere in crisi un governo, va avanti. Per i treni veloci al Sud c’è l’unanimità del Parlamento e del governo, ma non verrà realizzata. Se fosse presentata una mozione in Parlamento per dare l’alta velocità al Mezzogiorno vedremmo deputati e senatori tornare dalle ferie per votare a favore. Una bandiera da sventolare, nulla di più.

LE DISILLUSIONI

La mobilità è l’emblema del Sud dimenticato. La dotazione di strade e ferrovie non è degna della settima economia al mondo. Annunci, proclami, piani di investimenti miliardari per le regioni del Sud sono il leit motiv di ogni governo ma la realtà è profondamente diversa. Poche infrastrutture, di bassa qualità e decine di cantieri fermi. Taglio costante e sistematico delle risorse per il Sud che ormai può fare affidamento solo sul Fondo di coesione. Il governo gialloverde si è presentato puntando sul rilancio degli investimenti e su una nuova attenzione verso il Mezzogiorno, determinato a ricucire il gap tra le due Italie.

Ma oltre agli slogan c’è un vuoto politico assordante: mancano visione e progetti e, soprattutto, risorse che puntualmente vengono dirottate in prevalenza al Nord. Lo conferma, indirettamente, l’entusiasta ministro dei Trasporti Danilo Toninelli che pubblica su facebook la lista delle opere sbloccate dopo il voto sulla Torino-Lione. Un elenco di 15 interventi, di cui solo sei nel Mezzogiorno (ma di questi, veramente strategici appena due: la ferrovia Napoli-Bari e l’autostrada Ragusa-Catania).

Il dubbio però è legittimo. La tratta Napoli-Bari è stata già sbloccata almeno cinque volte, se va bene terminerà nel 2026. Non sarà una linea per i treni superveloci, ma già aumentare la velocità delle percorrenze è una specie di miraggio dopo Salerno. Per i 110 km tra Crotone e Reggio Calabria occorrono 3 ore e mezza in treno, velocità media sotto i 40 Km/h. Tra Firenze e Bologna c’è la stessa distanza, ma bastano 38 minuti per i 162 treni che ogni giorno collegano le due città: un’offerta da far invidia a giapponesi e francesi e che non ha eguali al mondo. Al Nord le lancette della modernità vanno avanti, al Sud sono ferme. In certi casi vanno indietro, come per la Reggio Calabria-Roma o la Napoli-Bari che 50 anni fa si percorrevano in meno tempo rispetto ad oggi.

LA PIETRA TOMBALE

Sull’alta velocità al Sud è stata messa la pietra tombale: formalmente ci sono progetti di nuove linee ma le risorse sono pari a zero. Al massimo si ridurranno i tempi sulla Napoli-Bari da 4 ore (e oggi solo 12 treni al giorno) a 2 ore e mezza. Qualche mese fa, in un’audizione in Parlamento l’ad di Rfi diceva che «portare l’alta velocità da Salerno a Reggio Calabria costerebbe 12 miliardi e oggi su questo progetto non sono previste risorse. La risposta deve darla la politica».

L’alta velocità ha accorciato l’Italia e la letteratura economica e sociale evidenzia come sia migliorata la qualità della vita ed elevata la ricchezza dei luoghi raggiunti dai treni veloci. Se guardiamo al futuro prossimo in Germania stanno costruendo altri 700 km di linee ad alta velocità, la Francia estenderà la sua rete di 1.400 Km, la Spagna di 1.700. In Italia poco più di zero: estensione della rete a Brescia. Sempre il ministro Toninelli ha confermato che idee e progetti sono pochi e confusi. Sull’alta velocità al Sud qualche settimana fa ha detto: «Stiamo facendo una valutazione nazionale e di sistema di tutto ciò che riguarda la viabilità. Oggi non ho una risposta».

IL PIANO

Il piano presentato dalle FS, sulla carta, rappresenta un cambio di passo, con 58 miliardi di investimenti nei prossimi 5 anni (LEGGI LA NOTIZIA). Quelli destinati alle infrastrutture ammontano a 42 miliardi e di questi 16 miliardi al Sud. Piano ambizioso, ma la copertura della mole di investimenti è ad oggi del 20%, quella autofinanziata dal gruppo guidato da Gianfranco Battisti. Il resto deve arrivare da fondi statali, regionali ed europei. Le scelte politiche degli ultimi 20 anni non inducono all’ottimismo. Nella precedente convenzione tra ministero dei Trasporti e Rfi gli investimenti previsti al Sud ammontavano a oltre 28 miliardi ma le coperture finanziarie erano solo 8,2 miliardi di euro. Il governo in carica, che punta sugli investimenti, nell’ultima manovra ha tagliato oltre 2 miliardi di euro alla spesa in conto capitale, di cui 600 milioni alle FS e 1,4 miliardi al fondo di coesione e ai fondi strutturali Ue, che dovrebbero assicurare risorse aggiuntive, ma negli anni sono diventati l’unica fonte di risorse per la spesa nel Sud.

GLI SQUILIBRI

Le ferrovie non sono soltanto alta velocità. Le linee elettrificate al Sud sono poco più del 50%, al Nord superano l’80%. In tutto il Mezzogiorno circolano meno treni che in Lombardia e con un’età media che sfiora i 20 anni contro i 13 del settentrione. L’inevitabile conseguenza è la riduzione del traffico. In Calabria solo 25mila persone usano il treno tutti i giorni, a Bolzano sono 32mila. In Campania il traffico pendolare è sceso del 30% in sei anni, a 308mila passeggeri, mentre in Lombardia è in costante crescita e supera le 750mila unità. E la ricca Lombardia ha già ipotecato una bella fetta degli investimenti delle Ferrovie. A marzo Regione e Rfi hanno concordato un piano dI investimenti da 14,6 miliardi entro il 2025 per migliorare la mobilità ferroviaria. Ci sarebbe da riscrivere il Piano Infrastrutture Speciali, che mostra una ripartizione territoriale delle risorse altamente sperequata.

Quasi il 70% dei 190 miliardi riguarda progetti del Centro-Nord e solo 86 miliardi sono destinati al Mezzogiorno. Purtroppo, sugli investimenti il Paese sconta un progressivo declino che penalizza soprattutto il Sud. Nei primi anni 2000 la spesa in conto capitale era oltre il 3% del Pil, ma al Sud appena l’1,6% e l’anno scorso ha toccato il record negativo dello 0,7%. Il governo Conte ha annunciato uno choc accelerando gli investimenti, specialmente al Sud, prevedendo con la legge di bilancio una cabina di regia, una centrale unica di progettazione e la struttura di missione InvestItalia. A oggi la cabina di regia si è riunita due volte e ha fatto una sola delibera. Centrale di progettazione e InvestItalia, come documentato da questo giornale, sono solo due titoli: ancora non sono costituite.

LO SBLOCCO CANTIERI

Anche lo Sblocca cantieri si sta rivelando più per le nuove criticità che per gli effetti benefici. E anche qui il Sud è la Cenerentola. Con l’eccezione del nodo della statale jonica in Calabria tra Roseto Capospulico e Sibari, per il Mezzogiorno non è indicato alcuno “sblocco” di cantieri fermi. Eppure tra Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia e Sicilia si contano 63 grandi cantieri fermi. Il rapporto dell’Ance ha calcolato che al Sud ci sono 130 opere bloccate, per un valore degli investimenti di 11,7 miliardi. Il vero nodo è il blocco delle opere infrastrutturali al Sud. Si riducono le risorse per gli investimenti e si allunga l’elenco delle opere che si bloccano.

L’Anas ha segnalato che nel Mezzogiorno il 60% degli interventi è fermo al palo. Non meno di 115 cantieri, per un valore superiore ai 9 miliardi di euro, saranno rinviati al prossimo biennio. Soldi già stanziati, che però non si riescono a spendere per una lista infinita di intoppi burocratici che vanno dalla condivisione dei progetti con gli enti locali, la necessità di approfondimenti tecnici fino a ritardi nella presentazione dei pareri tecnici o allungamenti dei tempi nell’iter autorizzativo. Senza il Sud l’Italia non riparte, come hanno riconosciuto il premier e il governatore di Bankitalia. Ma senza infrastrutture il Mezzogiorno e un terzo degli italiani sono condannati all’isolamento.


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