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Adesso basta. L’Italia ha preso l’Unione europea per un bancomat, finanziando il rilancio delle regioni del Sud quasi esclusivamente con i fondi comunitari e non con investimenti nazionali. Una pratica contraria alla regole comunitarie e che rischia di costare caro al Mezzogiorno, che ora rischia il blocco dei fondi a causa dei “furbetti” del governo centrale. Marc Lemaitre, direttore generale del direttorato per le Politiche regionali della Commissione europea, ha indirizzato a Roma una lettera per denunciare il mancato rispetto delle regole, e minacciando lo stop all’erogazione dei fondi destinati alle regioni meridionali. Un pericolo che il governo Conte vuole scongiurare, con il ministro per il Sud e la coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, deciso a trovare una soluzione con la nuova Commissione europea, che si insedierà l’1 novembre.

L’ACCUSA

La lettera in realtà è stata consegnata al rappresentante permanente dell’Italia presso la Ue, perché la recapitasse a Roma. Nel documento viene nei fatti contestato che l’Italia ha aggirato il principio di condizionalità. Questo stabilisce che i contribuiti europei per lo sviluppo delle regioni non devono sostituire la spesa pubblica o gli investimenti strutturali. In altre parole, le dotazioni finanziarie dei Fondi strutturali e di investimento non dovrebbero condurre a una riduzione degli investimenti strutturali nazionali in quelle regioni, ma dovrebbero rappresentare un’aggiunta alla spesa pubblica. Quest’ultima, però, in Italia è stata tagliata.
«In Italia le fonti di investimento per il Mezzogiorno sono state ridotte negli ultimi anni», denuncia Marc Lemaitre. Nella lettera l’alto funzionario ricorda che l’Italia si era impegnata a fare investimenti pubblici nelle regioni del Sud per un valore pari allo 0,43% del Pil del Mezzogiorno per il periodo 2014-2020, ma per il periodo 2014-2016 il tasso è fermo allo 0,40% e addirittura più basso per il periodo 2014-2017, allo 0,38%. «È il livello più basso di tutta Europa», denuncia l’alto funzionario della Commissione europea. Deciso a far rigare dritto il Paese.

GLI AIUTI

Anche perché l’Italia è tra i Paesi che in questi anni ha ricevuto più di quasi tutti gli altri per le regioni meno svantaggiate. Tra il 2007 e il 2013 l’Italia ha ricevuto dalla Ue 28,8 miliardi di euro attraverso gli strumenti finanziari a sostegno delle politiche di coesione. Il contributo complessivo previsto per il ciclo di bilancio in corso (2014-2020) prevede 44,6 miliardi di euro. In totale, dunque, l’Italia ha visto aiuti europei per più di 70 miliardi di euro, che però non ha saputo far fruttare, complici le scelte adottate a Roma.

«Perché il Mezzogiorno non migliora? Voglio attirare l’attenzione sul fatto che mentre l’Unione europea dava fondi, l’Italia riduceva gli investimenti pubblici, con il risultato che gli effetti dei fondi comunitari sono stati neutralizzati da questi tagli».
Il risultato? Aggiramento delle regole che rischiano di costare caro. Le regole prevedono in questi casi la possibilità di una “rimodulazione finanziaria”, il che vuol dire taglio delle risorse. Un ulteriore danno a un territorio già condannato dal governo centrale a restare indietro.

LA COMPETITIVITÀ

Gli indici di innovazione e avanguardia del 2019 risultano peggiorati rispetto a quelli del 2010.
«Nell’ultimo decennio non si è registrata più competitività, e questo è un elemento da verificare al sud come al nord». Il motivo di tutto questo è da ricercarsi in due elementi, che il direttore generale menziona: la capacità amministrativa e la capacità di utilizzo dei fondi comunitari. In linea di principio le risorse comunitarie per la coesione producono risultati «fintanto che si fa il miglior uso possibile dei fondi».

Lemaitre rende pubblici i mal di pancia della Commissione frutto delle furberie di Roma. «Siamo sempre più spesso accusati di non fare niente per il Mezzogiorno, perché in tutti questi anni abbiamo dato alle regioni del Sud tanti soldi e i risultati non vengono notati».

L’Italia avrebbe potuto e dovuto investire molto. Gli indici di competitività considerano ben undici elementi: istituzioni, stabilità macro-economica, infrastrutture, sanità, istruzione di base, istruzione superiore, efficienza del mercato del lavoro, struttura del mercato economico, livello di tecnologizzazione, raffinatezza aziendale, innovazione. Il Paese è indietro su tutto, e ora l’Europa chiede conto.


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