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La Frana di Sarno

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Più di 72 ore di pioggia incessante, poi un boato, la montagna che viene giù. L’inferno. Era il 5 maggio 1998 quando un fiume di acqua e fango annientò i Comuni della piana Sarnese, Sarno, Bracigliano, Quindici, Siano. Paesi distrutti, un lungo elenco di vittime. Era Sarno, era il Sud, era l’incuria di una parte, la solita, del Paese. Dopo 21 lunghi anni tutta l’Italia si sta scoprendo Sarno. Frane, smottamenti, allagamenti, fiumi che straripano dal Nord al Sud. A macchia di leopardo, mese dopo mese, anno dopo anno, tutta l’Italia si è trovata ad affrontare l’effetto Sarno.

UNA FRANA GENERALE

I cambiamenti climatici certo hanno fatto la loro parte. Gli eventi estremi sono una regola e di fronte alla furia della natura spesso si può fare ben poco. Però è una Natura sfregiata, maltrattata che ricambia della stessa moneta. Si allunga la lista dei danni e delle vittime. Interi territori devastati, attività produttive in fumo.

A pagare il conto più pesante è l’agricoltura che oggi in alcune regioni, specie al Sud, rappresenta la principale fonte di reddito e motore dello sviluppo. Un settore che con l’industria alimentare, la commercializzazione e la ristorazione è balzata al primo posto tra le attività produttive italiane con un fatturato di 538 miliardi e 118 miliardi di valore aggiunto. Unico settore che non può essere delocalizzato e che può offrire una valida opportunità al depauperamento della nostra industria manifatturiera.

L’acciaio, come racconta la cronaca di questi giorni, è un’incognita, l’auto ha il tricolore sbiadito, la moda sta finendo nelle fauci dell’industria straniera del lusso. L’agroalimentare, che pure fa gola ai brand esteri, tiene duro con marchi che ritornano a casa e rappresenta così una delle poche vie d’uscita dalla crisi. Ma è anche il settore che soffre di più.

In dieci anni la perdita provocata dal maltempo, secondo il bilancio tracciato dalla Coldiretti, è di oltre 14 miliardi. Soltanto l’ultima ondata di pioggia e vento che ha sferzato l’Italia, dalla Liguria al Piemonte, dal Veneto all’Emilia e Romagna per scendere nel Lazio, in Puglia, Calabria, Basilicata fino alle Isole è costata 100 milioni.

Gli agricoltori – lamenta Coldiretti – non riescono neppure a entrare nei campi per le operazioni colturali. E così le piantine affogano, come i capi in stalla, il grano rischia di essere compromesso, e ancora, vigneti devastati, ortaggi distrutti, serre crollate. Qualche tregua e poi si riaccendono i riflettori sulle catastrofi. Viadotti che si sbriciolano , strade invase dal fango. Un filo rosso lega tutta l’Italia.

E se è vero che per giorni tutta l’attenzione si è concentrata sull’acqua alta a Venezia, città museo, mentre Matera, un’altra perla nazionale che chiude sott’acqua il suo anno di capitale europea della cultura, pur flagellata dal maltempo (8 milioni di danni) è scomparsa velocemente dai radar, la realtà è che tutta l’Italia è Sarno.

LUNGAGGINI BUROCRATICHE

E la diagnosi è la stessa. L’abbandono dei territori, le occasioni perse per non aver messo in sicurezza il Paese. Sprechi tanti, il Mose è lì a testimoniarlo. Come le case costruite con troppa leggerezza lungo i fiumi e con gli occhi spesso socchiusi di chi deve controllare e i tanti condoni che hanno regolarizzato veri e propri mostri.

I soldi mancano? Ma neppure questo è vero. Una recente analisi della Corte dei conti sull’impiego dei Fondi per la progettazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico 2016-2018 (pubblicata dal nostro giornale) ha evidenziato che solo meno del 20% delle risorse stanziate per il 2017 è stato utilizzato dalle regioni e i progetti programmati sono rimasti al palo.

Procedure complesse e lungaggini bloccano le risorse e i territori diventano sempre più fragili. Si procede tamponando le emergenze, ma continua a mancare una politica strutturale e di lungo periodo che consenta ai Comuni dissestati di affrontare l’aggressione dei fenomeni naturali Anche la normativa scattata dopo i disastri di Sarno e Soverato (pesantemente colpita nel 2000), secondo la Corte dei conti, non ha avuto un carattere programmatico e preventivo.

I COMUNI A RISCHIO

Mentre sono più di 7mila i Comuni a rischio frane e alluvioni, il 91% che arriva al 100% in Liguria e Toscana. La responsabilità viene attribuita anche alla cementificazione selvaggia che ha strappato il 28% della superficie agricola alla coltivazione che oggi – denuncia Coldiretti – si è ridotta a 12,8 milioni. In 20 anni si è addirittura dimezzata la superficie coltivata a pesche e nettarine, si è ridotto del 34% il terreno investito a uva da tavola, ma hanno perso spazio le arance (- 23%), i limoni (- 27%), le clementine e i mandarini (-3%). Nel 2018, secondo gli ultimi dati Ispra, asfalto, fabbricati e strade hanno inghiottito 14 ettari al giorno. La mancata coltivazione, l’abbandono delle aree marginali e dei boschi rendono vulnerabili paesi e popolazioni.

GLI APPELLI

«L’Italia – ha detto il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini – deve difendere il proprio patrimonio agricolo e la propria disponibilità di terra fertile con un adeguato riconoscimento sociale, culturale ed economico del ruolo dell’attività nelle campagne. Per evitare di dover costantemente rincorrere l’emergenza servono interventi strutturali che vanno dalla realizzazione di piccole opere di contrasto al rischio idrogeologico, dalla sistemazione e pulizia straordinaria degli argini dei fiumi ai progetti di ingegneria naturalistica, fino a un vero e proprio piano infrastrutturale per la creazione di invasi che raccolgano tutta l’acqua piovana che va perduta e la distribuiscano quando ce n’è poca, con la regia dei Consorzi di bonifica e l’affidamento ai coltivatori diretti». Mentre l’Associazione dei Consorzi di bonifica ( Anbi) sostiene di avere il cassetto pieno di progetti strategici immediatamente cantierabili che, se non a risolvere, potrebbero comunque contribuire a contrastare le conseguenze dei cambiamenti climatici con una accorta gestione dell’acqua.


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