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NELL’INDUSTRIA dell’acciaio, quello a ciclo integrale, vige la regola che per fare un milione di tonnellate occorrono mille persone e i conti sono presto fatti: per fare a Taranto i 6 milioni di tonnellate previsti dalle varie autorizzazioni ambientali, non servono più di 6 mila addetti, 5 mila in meno di quelli attuali. Pensare di sovvertire tale regola è fantasia, a meno che non si voglia consentire ai proprietari di raddoppiare la produzione, il che implicherebbe un’ancora più irrealistica disponibilità delle autorità a tornare a livelli produttivi precedenti il 2012, quando scoppiò lo scontro fra industria e ambiente.

LA LOGICA DEL PROFITTO

Nessuna azienda privata al mondo, tanto meno in Italia, è attualmente interessata a entrare in un impianto dove, oltre alle questioni legali irrisolte, vi sono tali forti interferenze da tutte le parti circa decisioni di carattere industriale e ambientali che comportano miliardi di investimenti e costi unitari per tonnellata di acciaio che possono variare di un 20-30%. Le imprese private hanno l’obiettivo primario di fare profitto, produrre a costi più bassi dei ricavi dopo le tasse, anche per fare nuovi investimenti per garantire nel tempo il posto ai lavoratori. Quello dei profitti, però, con l’ascesa al potere dei finanzieri, è diventato, negli ultimi anni, di gran lunga l’unico obiettivo, peraltro non nel lungo termine, come la teoria economica vorrebbe, ma nell’immediato, nel prossimo trimestre.

Questo vogliono gli azionisti, non solo la famiglia Mittal, pittoresco esempio di capitalismo di altri tempi, che detiene il 37% del capitale sociale, con il restante 63% di altri investitori. In questi mesi l’imprenditore proprietario ne ha sentite di cotte e di crude. Oltre alla ormai storica soluzione del passaggio a gas, più di recente è emersa la possibilità di usare la plastica al posto del carbone. Il Sud, si sa, è pieno di rifiuti, che non sono proprio plastica, ma che, nell’attuale centralità nelle politiche industriali del governo, possono generare una sorta di plasmix, come quello usato in Austria, per risolvere i problemi della più grande acciaieria Europea.

Sempre pochi giorni fa sui titoli di giornale di tutt’Europa, c’era la concorrente Thyssen che sta sperimentando per la prima volta l’impiego di idrogeno che quando brucia si trasforma in acqua. E’ talmente bella tale soluzione che non serve andare nel dettaglio della notizia, ma è meglio immaginare che dietro l’angolo ci sia l’avvento della terza, o quarta, dipende dai punti di vista, rivoluzione industriale, basata sull’idrogeno. Che sia gas, plastica o idrogeno, si tratta sempre di ipotesi sperimentali, quasi da centro di ricerca, che non si applicano, se non per piccoli volumi, alla realtà di Taranto. Che la proprietà debba ascoltare queste idee e poi decidere di investire miliardi è alquanto bizzarro. Che cosa potrebbero raccontare ai loro azionisti? Che in Italia, per il bene del Sud e per le migliaia di occupati si sta investendo in procedimenti rivoluzionari? E Il profitto del prossimo trimestre, quello di fine marzo 2020?

PRIMATO DELLA POLITICA

Se si vuole davvero fare qualcosa di strategico, al limite anche del rivoluzionario nei processi di produzione dell’acciaio, occorre l’intervento di chi ha visioni di più lungo termine e spalle larghe finanziariamente, al riparo da chi vuole guadagni immediati e bassi rischi. Stabilito che al secondo paese manifatturiero d’Europa serve l’acciaio, soprattutto per fare metalmeccanica, allora occorre toglierlo dalle logiche strettamente finanziarie, attraverso anche un intervento anche pubblico di fronte ad un evidente fallimento del dio mercato dove dominano i privati. Vero, il ricordo va immediatamente agli interventi statali del passato, spesso fallimentari, da cui si è voluto uscire con le diffuse privatizzazioni, percorso da cui è passata anche l’Ilva. Tergiversare sulla possibilità che Arcelor Mittal possa accettare logiche diverse, o che vi possa essere qualche altro privato che prenda il suo posto è perdita di tempo. Nei settori da sempre considerati strategici, come l’energia, lo Stato non è mai uscito e ha sempre mantenuto il controllo, garantendo anche una gestione coerente con le esigenze degli altri azionisti.

La gestione delle grandi aziende energetiche dove lo Stato, con la Cassa Depositi e Prestiti, ha mantenuto la partecipazione di maggioranza non è stata, ne poteva essere, priva di errori, tuttavia, il loro valore è cresciuto, sono solide realtà riconosciute da tutti, soprattutto all’estero. La situazione a Taranto ha raggiunto un livello di gravità che impone, in maniera molto laica, di affermare il primato della politica, per fare anche quella industriale, nel rispetto delle regole del mercato, proprio per provare ad evitare nel finire nel baratro della povertà da deindustrializzazione, dove si che allora cresceranno le logiche clientelari della parte peggiore della vecchia politica.


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