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Il professore di diritto amministrativo Marco Cammelli

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Dell’autonomia differenziata si sono perdute le tracce, da quando Giuseppe Conte ne parlò in occasione della presentazione alle Camere del suo secondo governo. In verità si trattò di una sorta di atto dovuto, dal momento che il nuovo esecutivo intendeva mantenere una certa continuità con quello precedente. Non sappiamo se, dopo la sfolgorante vittoria in Emilia Romagna, sarà lo stesso Stefano Bonaccini a mettere allo sconto la cambiale sottoscritta dal governo. Certamente, visti gli impegni elettorali dei prossimi mesi, l’operazione autonomia, sulla carta, potrebbe essere decelerata proprio per non creare problemi, ai partiti di maggioranza, durante le elezioni in alcune importanti regioni del Sud.

I gruppi dirigenti meridionali, però, non possono “tirarla in lungo’’ più di tanto. Farebbero bene ad avanzare delle proposte, partendo da una domanda-chiave: esiste (o meno) anche una questione istituzionale alla base della crisi che investe il Sud? Mi sono ricordato che un problema di questo tenore venne posto, diversi anni or sono, da un illustre docente di diritto amministrativo, Marco Cammelli, il quale pubblicò alcuni importanti saggi che affrontavano questa materia proponendo un modello di governance da lui definito «diverso».

IL SAGGIO DI CAMMELLI

In un saggio dal titolo Mezzogiorno e servizio amministrativo: le istituzioni della diversità (pubblicato da Il Mulino alla fine degli anni ’80) allo scopo di individuare una strategia sostitutiva e adeguata al venir meno dell’intervento straordinario, Cammelli, si preoccupava «di immaginare qualche prospettiva che, pur non superando evidentemente lo stadio dell’ipotesi di lavoro, permettesse tuttavia di uscire dal consueto e paralizzante alternarsi dei due modelli finora succedutisi: il decentramento a regime ordinario, vale a dire perfettamente (anche se solo sul piano formale) omologo all’assetto vigente in tutto il restante territorio nazionale, per niente rispettoso delle peculiarità del sistema locale meridionale, e il succedersi di regimi speciali, diversi nel tempo e nelle materie interessate ma unificati dalla rigida gestione centralizzata.

Di qui l’ipotesi di pensare per il Mezzogiorno – proseguiva il professore – un sistema istituzionale basato su una differenziazione normativa e organizzativa stabile (e dunque non episodica) e nello stesso tempo allargata, tale cioè da comprendere non solo gli ex-apparati dell’intervento straordinario, ma anche il sistema regionale e locale, l’amministrazione periferica dello Stato, le articolazioni decentrate degli enti pubblici nazionali».

SISTEMA STABILE E DIVERSIFICATO

Affrontare la questione meridionale nella fase di transizione dopo la fine dell’intervento straordinario e il rétourn à la normale induceva Cammelli a sostenere che «mentre il tradizionale (anche se anagraficamente recente) intervento straordinario stenta ad avviarsi, appesantito dagli strascichi della gestione precedente, avviluppato nella complessità delle sue procedure, contestato nei suoi confini territoriali e nelle sue tipologie di intervento dalle autorità della Cee, il centro non cessa di riproporre il medesimo monocorde motivo: azione ordinaria, suscettibile di (qualche frazione di) decentramento dei poteri decisionali, o azione in regime di deroga, a conduzione centrale.

Ecco farsi strada, allora, l’idea di immaginare per il Sud un sistema istituzionale ordinario, e dunque stabile, nello stesso tempo diversificato da quello vigente nelle altre parti del paese e integrato, comprensivo cioè al suo interno dei diversi segmenti pubblici operanti nei territori interessati (ex apparati dell’intervento straordinario, regioni, autonomie locali, amministrazioni periferiche dello Stato, articolazioni decentrate degli enti pubblici nazionali). Vanno, tuttavia, chiarite le finalità dell’intervento pubblico in questi ambiti territoriali (protezione di aree produttive inidonee a reggere la concorrenza esterna, selezione di progetti ed erogazione di risorse operata direttamente dal sistema politico agendo in parallelo al circuito delle istituzioni formalmente competenti).

Solo in un secondo tempo, sosteneva l’autore, si potranno discutere le forme giuridiche più opportune (regime ordinario o regime derogatorio? Quali competenze al centro e quali alla periferia? Apparati tecnici o amministrazioni tradizionali?). In particolare, l’equazione pubblico-uniforme-generale che sottintendono. Ora, che storicamente il diritto pubblico e l’amministrazione statale siano stati l’ossatura portante degli Stati nazionali e dei processi di unificazione e centralizzazione che li hanno accompagnati è fuori di dubbio. Altrettanto certo è il fatto che tale modello si sia (se possibile) ancora più radicato nell’esperienza italiana, ove la gracilità della borghesia e l’incompiutezza del processo di industrializzazione spostarono proprio sugli apparati amministrativi a modello ministeriale (che proprio per questo fu importato) quell’azione di omologazione e di consolidamento che né la sfera economica né quella politica era no sufficienti ad assicurare.

IL MUTAMENTO PROFONDO

Fin qui, dunque, si tratta di cose ben note, come altrettanto conosciuto è il sovraccarico di compiti strategici che per tali ragioni scivolò sull’amministrazione pubblica (allora equivalente a quella statale), al punto che il completamento con criteri di funzionalità dei compiti operativi ad essa assegnati fu ripetutamente subordinato ad altri obiettivi (dalla “piemontizzazione” alla mediazione/convivenza con le élite locali, dalla veicolazione di ingerenze dei partiti politici nella vita sociale all’assorbimento di manodopera esuberante) fino a segnarla in modo irreversibile.

Ma il fatto che così sia stato non significa necessariamente che sia così ancora oggi. Anzi. L’enorme, e irreversibile, frammentazione dell’amministrazione pubblica in una galassia di regimi giuridici, livelli di azione, settori di intervento, ambiti territoriali, ruoli espletati, oltre ad altre molteplici conseguenze, è lì ad indicarci che ben poco dei compiti di connessione tra particolare e generale o di relais tra periferie e il centro può essere assicurato, oggi, per tale via. Ma c’è molto di più della constatazione, pure innegabile, secondo cui gli apparati pubblici, disarticolandosi, hanno perduto anche il proprio centro, restandone irrimediabilmente sprovvisti. Cominciano infatti a emergere i contorni di un mutamento assai più profondo: per vaste zone, il diritto pubblico e quello privato si sono in qualche misura scambiati il ruolo tradizionalmente assolto, subendone entrambi profonde modificazioni.


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