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C’È una emergenza all’interno di questa immane tragedia del coronavirus, che può essere devastante per il nostro futuro ed è il blocco della nostra industria. La nostra manifattura è stata in questi anni la componente più dinamica dell’economia, non solo perché ha sostenuto con le sue esportazioni un prodotto interno lordo che altrimenti sarebbe stato stagnante, ma soprattutto perché ha generato e diffuso innovazione, che resta l’unico antidoto contro la depressione.

LA STRATEGIA

L’aver fermato d’autorità la produzione industriale, se è giustificabile dal punto di vista sanitario, diviene un grave problema per tutto il Paese, perché l’industria non è un apparato che si può accendere o spegnere come un televisore, ma richiede tempi di attivazione che dipendono proprio dalla complessità sociale di cui è composta l’organizzazione manifatturiera.

Un tempo l’industria coincideva con la fabbrica, dentro le cui mura stavano tutte le fasi di un stesso ciclo di produzione; ad esempio la Fiat degli anni Ottanta, in cui si sono formate le relazioni sindacali che sono ancora oggi operanti. Oggi l’industria è una rete di relazioni, che coinvolge imprese di diversa dimensione, anche localizzate in Paesi lontani, che operano in continuità sulle diverse fasi del ciclo produttivo, ognuna mettendo a disposizione le proprie competenze, cosicché per il riavvio della produzione occorre che tutte le diverse parti del puzzle siano innanzitutto sopravvissute e siano attivabili in contemporanea. Occorre una regia chiara e basata su una conoscenza profonda del nostro sistema produttivo, tanto più che il riavvio avverrà – speriamo presto – in una fase in cui i mercati internazionali saranno ancora confusi e le stesse reti di subfornitura dovranno essere riorganizzate perché, se fino a un mese fa era conveniente produrre le componenti standard in Cina o in Vietnam, oggi queste delocalizzazioni diventano un fattore di rischio che può compromettere tutta la produzione.

È quindi essenziale garantire liquidità alle imprese e accompagnare la crisi con ammortizzatori sociali adeguati, ma non è più sufficiente, poiché è tempo di definire una strategia di politica industriale capace di portare il cuore produttivo del Paese fuori da una crisi che può trasformarsi in una recessione senza fine.

IL CUORE PRODUTTIVO

Questo cuore produttivo del Paese è dato per un verso da un gruppo di grandi imprese, sortite dalle privatizzazioni degli anni Novanta, ma che hanno ancora nello Stato il maggiore azionista – l’Eni, l’Enel, Leonardo-Finmeccanica, Telecom – e per altro verso da un gruppo di imprese private produttrici di macchine di produzione, di farmaceutici, di alimentare, di Made in Italy, a cui si aggiunge un gruppo di imprese multinazionali che hanno ereditato o acquisito marchi italiani, ad esempio nel settore automotive.

A queste vanno aggiunte le strutture di ricerca nazionali, oltre alle università, gli enti di ricerca, le grandi infrastrutture di supercalcolo, che oggi sono parte integrante di un sistema industriale. Molti di questi soggetti sono oggi intrappolati nel triangolo Milano-Bologna-Venezia, ma le loro filiere produttive giungono fino al Sud del nostro Paese, cosicché il loro blocco ferma anche le regioni che sembrano ancora al margine della pandemia e che debbono naturalmente tutelarsi.

RICOSTRUIRE LE RETI

Fare politica industriale oggi vuol dire ricostruire queste reti, colmarne i buchi, sostenerne le alleanze internazionali, garantirne le infrastrutture portanti a partire dai sistemi di telecomunicazione e di energia. Fare politica industriale vuol dire riposizionare il Paese in un contesto internazionale che non sarà più quello di prima, scoprendone le nuove opportunità, fare politica industriale vuol dire garantire alla nostra industria competenze emergenti, con un piano integrato con le università e le scuole perché solo nel nostro capitale umano può stare il nostro vantaggio competitivo. In altre parole, fare politica industriale mai come oggi vuol dire uscire dalla logica dell’emergenza e del sussidio, per avere una visione lunga, aldilà anche di questa peste che oggi ci attanaglia.


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