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Giorgio Armani e Milla Jovovich

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Giorgio Armani, piacentino, classe ’34, un patrimonio stimato in 11, 2 miliardi di euro, è il Guglielmo Marconi del doppiopetto, il Gianni Agnelli dell’organza, l’eccellenza padana che tutto il mondo ci invidia. Il signor Giorgio è l’uomo che ha reso la moda italiana un’enorme bomboniera di platino. Sta bene.

 Sicché ora che, al tempo in cui il Coronavirus fa strame del settore dell’abbigliamento (il fatturato è in calo di fatturato del 50% su un sistema di ricavi di 90 miliardi di euro che solo l’anno scorso aveva registrato un +6,2% dell’export), la notizia che lo stilista esprima pensieri e j’accuse che appartengono, fondamentalmente, al popolo, non farebbe che strappare applausi. «Il declino del sistema moda, per come lo conosciamo, è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion con il ciclo di consegna continua, nella speranza di vendere di più…Io non voglio più lavorare così, è immorale», afferma Re Giorgio. E aggiunge che «non ha senso che una mia giacca, o un mio tailleur vivano in negozio per tre settimane, diventino immediatamente obsoleti, e vengano sostituiti da merce nuova, che non è poi troppo diversa da quella che l’ha preceduta».

Dopodiché il divino urla il suo “basta!” alla spettacolarizzazione, agli sprechi, alla grandeur della moda milanese; e attua – lui sì che può farlo – la riconversione dei suoi stabilimenti in fabbriche di camici per i medici in trincea contro il Covid19. Armani fa la sua accorata denuncia in una  lettera aperta a  WWD Women’s Wear Daily,  rivista settoriale punto di riferimento del mondo della moda. E si associa di fatto – ma detto da lui, la cosa fa tutt’un altro effetto- alle denunce dei brand del lusso su  negozi chiusi, merce invenduta nei magazzini e campagne pubblicitarie in bilico a causa dell’emergenza sanitaria. Per inciso: le stime di Federazione Moda Italia fanno prevedere un calo di almeno, appunto, “la metà degli incassi per il 2020”:  il sistema aveva, nel 2019,  una fetta considerevole del Pil, in rialzo dello 0,8% e sulla spinta dall’export ma già all’inizio di febbraio la Camera della Moda proiettava perdite apocalittiche pari all’18% del Pil stesso. Ora la crisi vera è esplosa davvero.  Perciò le associazioni chiedono esenzioni dai canoni d’affitto e agevolazioni fiscali: «Dobbiamo considerare la crisi non un danno per il sistema, ma l’occasione per correggerlo».

E il problema, la stonatura nel suddetto grido alla luna di Armani sta proprio qui: nel “correggere il sistema”. Prima ho usato il condizionale: Armani “potrebbe” strappare applausi. Potrebbe. Parliamoci chiaro. Armani per 45 anni è stato parte consistente dello stesso sistema che vorrebbe revisionare.

E allora, perché non correggere davvero le storture dei uno dei pochi mercati che i mass media tendono ad ignorare (tranne Report che fece l’ultima grande inchiesta sulla moda)?  Qualche esempio?  Gli addetti ai lavori conoscono bene il vizietto del  “mercato parallelo”  attraverso cui esercenti e terzisti acquistano tonnellate di stagione di abiti delle più note griffe per rivenderli ai mercati asiatici (specie ai cinesi, sempre loro). La quale pratica -pur non illegale- produce una falsa percezione del venduto nel mercato italiano privandolo in gran parte della stima reale del consumo interno;  crea un sotterraneo mercato di stecche e mazzette che attraversano la filiera e la snaturano; determina la creazione di negozi extralusso in centro che spesso sono cattedrali nel deserto. Tant’è che, a memoria di stilista, le ultime grandi file di clientela italiana, gli ultimi veri fenomeni di “lusso di massa” sono stati proprio gli  Empori Armani  che non s’erano piegati alla piaga del “parallelo”.

Altro esempio. Il fatto di dipendere dai mercati asiatici quasi totalmente, non solo depotenzia il mercato italiano interno (ecco il motivo della grande crisi); ma fa sì che la nostra moda si pieghi gradualmente al gusto e fatturato asiatico. Sicché il prodotto s’imbruttisce, «ed è più facile trovare un capo di buon gusto da Zara che in via MonteNapo», sussurrano alcuni stessi dirigenti Armani. Poi, per dire, c’è il tema della grandeur anni ’80 che ha spinto i grandi brand a spese fisse elefantiache e all’aumento dei prezzi e a destabilizzare la filiera, ed ecco il motivo dell’avanzata di brand popolari che però lanciano prodotti dignitosissimi anche per tasche medio alte. Insomma, questa moria delle vacche creata dal Coronavirus potrebbe davvero fare piazza pulita di molti lati oscuri del settore. Potrebbe.


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