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Strette nella morsa del crollo del fatturato per il lockdown e l’incertezza del futuro all’indomani della riapertura, circa 270 mila imprese del commercio e dei servizi rischiano la chiusura definitiva se le condizioni economiche non dovessero migliorare rapidamente. L’allarme è stato lanciato dall’Ufficio studi di Confcommercio che ha raccolto le testimonianze delle aziende del terziario di mercato. 
La situazione è ancora più grave al Sud dove, considerata la maggiore fragilità del tessuto produttivo, la probabilità di non sopravvivere è, secondo la Svimez, «4 volte superiore rispetto a realtà del Centro-Nord».

Il Mezzogiorno rischia di pagare un prezzo molto alto sia in termini di impatto sociale, per effetto della maggiore precarietà del mercato del lavoro e della più alta diffusione di aree di disagio e povertà, sia in termini di rischio di chiusura di moltissime piccole e micro imprese finanziariamente più fragili.

LO STRAVOLGIMENTO

Rialzare la saracinesca, allestire le vetrine, rimettere in moto le cucine dei ristoranti, non significa affatto tornare indietro di due mesi, annullando quello che è successo. Innanzitutto perché la ripresa sarà graduale e con i dispositivi di sicurezza che impongono un flusso dimezzato nei locali, e poi perché si teme che nel frattempo le abitudini degli italiani siano cambiate. Il negozio di prossimità è stato sostituito dalla piattaforma di Amazon, veloce nella consegna e con offerte vantaggiose per tutte le tasche.

L’obbligo del distanziamento rischia di annullare il piacere della colazione al bar o di una cena al ristorante, che sono, tradizionalmente, occasioni sociali. Lo struscio nei luoghi della movida urbana perde la sua attrattiva se per entrare in un negozio bisogna fare la fila o se un’aperitivo è servito in tavolini lontani gli uni dagli altri.

Riaprire l’attività significa affrontare costi fissi che in alcune aziende incidono per il 54% sull’esercizio, ma difficili da coprire con una domanda molto bassa. Un rischio che incombe anche sulle imprese dei settori non sottoposti a lockdown.

«Su un totale di oltre 2,7 milioni di imprese del commercio al dettaglio non alimentare, dell’ingrosso e dei servizi – viene spiegato nel rapporto dell’Ufficio Studi di Confcommercio – quasi il 10% è, dunque, soggetto a una potenziale chiusura definitiva». I settori più a rischio sono gli ambulanti, i negozi di abbigliamento, gli alberghi, i bar e i ristoranti e le imprese legate alle attività di intrattenimento e alla cura della persona. Mentre, in assoluto, le perdite più consistenti si registrerebbero tra le professioni (-49 mila attività) e la ristorazione (-45 mila imprese). Per quanto riguarda la dimensione aziendale, il segmento più colpito sarebbe quello delle micro imprese, con 1 solo addetto e senza dipendenti. Queste realtà si muovono sul filo della liquidità e basta quindi una riduzione del 10% dei ricavi per determinarne la chiusura.

I COSTI

Le stime elaborate incorporano un rischio di mortalità delle imprese «superiore al normale – precisa l’Ufficio studi – per tener conto del deterioramento del contesto economico, degli effetti della sospensione più o meno prolungata dell’attività, della maggiore presenza di ditte individuali all’interno di ciascun settore e del crollo dei consumi delle famiglie».

Secondo l’Associazione Favor Debitoris, i sovra-indebitati sono quasi 2 milioni, di cui famiglie e imprese rappresentano l’81,7% e le piccole realtà imprenditoriali il 13,55%.

La Svimez ha calcolato che il lockdown costa all’economia italiana 47 miliardi al mese e di questi 10 sono persi nel Mezzogiorno. Questo non significa che il Sud sia meno colpito. Anche se è il Nord a perdere il maggio fatturato, sono le Regioni meridionali a subire un impatto peggiore. Il blocco delle attività ha interessato circa 2,5 milioni di lavoratori autonomi, oltre 1,2 milioni al Nord, oltre 400 mila al Centro e quasi 700 mila nel Mezzogiorno. Al Sud si concentrano inoltre circa 800 mila lavoratori irregolari e 800 mila disoccupati che per effetto della crisi non potranno accedere al mercato del lavoro.

«La maggiore fragilità e precarietà del mercato del lavoro meridionale – conferma la Svimez – rende più difficile assicurare una tutela a tutti i lavoratori, precari, temporanei, intermittenti o in nero, con impatti rilevanti sulla tenuta sociale dell’area».

I dati di “Congiuntura Confcommercio” mostrano per alcuni settori un crollo delle vendite, a livello nazionale, fino al 100%, con recuperi minimi da online e consegne a domicilio.

I SEGNALI DELL’E-COMMERCE

Tra le chiusure dei negozi non fanno eccezione le grandi catene che si pensava avessero le spalle più larghe per sopravvivere alla crisi del Covid. Il colosso svedese di abbigliamento H&M ha deciso la chiusura di otto negozi in Italia, la maggior parte al Nord tra Milano, Udine, Gorizia, Vicenza e Grosseto ma a cui si è aggiunto quello a Bari con 50 dipendenti. Causa: il crollo del fatturato.

Il marchio svedese ha comunicato che «l’obiettivo è quello di ottimizzare il proprio portafoglio negozi, aggiungere nuovi servizi online e continuare a offrire ai clienti la migliore esperienza di shopping attraverso diversi canali». E’ un segnale eloquente che il mercato sta cambiando, si sta orientando sul web che presenta meno costi e sa rispondere con più velocità alle emergenze, come dimostrato dalla pandemia.
Sul tavolo di conciliazione nazionale ci sono ipotesi di ricollocamento del personale ma le difficoltà non mancano perché ci sono solo piccoli negozi anche loro in crisi.

La diffusione del commercio online, che potrebbe essere tra le cause della chiusura di molti negozi, dilaga anche al Sud, dove la spesa nel locale di prossimità sembrava più radicata. Secondo una ricerca di Weborama, focalizzata sulla spesa online, il food delivery e l’e-commerce, la Campania è la terza regione dopo Lombardia e Lazio, con il maggior numero di utenti interessati all’e-commerce. In particolare il 7% ha scoperto il piacere dell’acquisto di prodotti alimentari online, mentre il 12% opta per il food delivery.


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