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PERFINO Monza e Brianza mostrano oggi crepe che vanno giù in profondità nel corpo malandato del nostro Paese. L’ultima edizione 2019 della analisi delle Top 500 imprese di quella che abbiamo considerato a lungo la corazzata dell’industria italiana presenta per Monza e la Brianza una riduzione di quasi il nove per cento nella produzione di elettronica e dell’otto per cento nella produzione di macchinari. Queste crude cifre – ormai lontanissime dai fasti dell’anno precedente – indicano un malessere a cui si sta replicando con la ormai reiterata richiesta di una salvifica politica industriale, di cui giorno dopo giorno si tocca con mani la palpabile assenza, ma senza una visione approfondita dei cambiamenti strutturali che stanno investendo tutta la nostra economia e tutta la nostra società.

NON SI VIVE DI SOLO EXPORT

Cosa sta succedendo? Sta succedendo semplicemente che un Paese non può vivere solo di export e che, in altre parole, bisogna riconquistare una dimensione nazionale che possa sostenere la nostra industria in un processo di trasformazione straordinariamente complesso e che deve coinvolgere fino all’ultimo angolo dell’intero Paese. Del resto il rischio per l’intera Europa è che il nocciolo duro dello sviluppo si riduca alla sola area fra Bologna e Stoccarda, magari saltando la Brianza, con periferie sempre più vaste ed a loro volta frazionate ed abbandonate. Riconquistare una dimensione nazionale vuol dire riprendere a ragionare su tutto il Paese come un sistema produttivo inserito nel contesto europeo e internazionale, ma anche come un paese che deve consumare con intelligenza ed investire su quei beni che qualificano la vita collettiva. Ciò che sta emergendo nel dibattito su sviluppo e sostenibilità, che si sta consolidando dalle piazze ripiene dei giovani alle aule delle Nazioni Unite, è che gran parte di una nuova crescita si basa su beni pubblici, come la gestione delle acque, il disinquinamento dei suoli, la gestione della salute di una popolazione sempre più anziana. Il nuovo sviluppo industriale parte dalla visione di una nuova società che richiede una profonda trasformazione dell’ambiente fisico e sociale e che richiede competenze profondamente radicate nel territorio.

VISIONI DI FUTURO

In questa prospettiva di trasformazione produttiva, bisogna riordinare il sistema scientifico nazionale, a partire da quel fondamentale pilastro della nuova scienza – ma anche della nuova industria – costituito dalle strutture di supercalcolo, da mettere a disposizione del Paese e di tutta l’area mediterranea. Mettere a disposizione di tutto il Paese la nuova scienza dei grandi numeri, dei nuovi materiali, del nuovo digitale diviene necessario sostenere una crescita basata su nuove e rinnovate imprese in grado non solo di innovare i prodotti esistenti, ma capaci di realizzare nuovi progetti di trasformazione, per i quali occorre incorporare scienza e tecnologia nei beni e nei servizi offerti. Già oggi sono moltissime le imprese italiane che possono porre in campo competenze e conoscenze di prima qualità, oggi racchiuse in nicchie tecnologiche che però diventeranno necessariamente i nuovi mercati di un domani vicinissimo. Su questo terreno, che parte dal dissesto idrogeologico agli inquinamenti di grandi aree industriali, da nuovi modelli di consumo all’utilizzo di nuovi materiali per sostituire produzioni rapidamente rese obsolete e “impresentabili”, possiamo delineare un percorso di trasformazione e ripresa per il nostro sistema produttivo. In questa prospettiva bisognerà anche riprendere un ragionamento sul rapporto fra sistema produttivo e Stato, ma evitando ritorni al passato, reinventando modelli già consegnati alla storia. Invocare una nuova politica industriale vuol dire avere visioni di futuro, non solo cercare di tamponare un passato, che non riusciamo a chiudere, vuol dire accompagnare tutto il Paese su strade nuove.


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