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L'assessore regionale Manuela Lanzarin

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Diffusione del Coronavirus in Veneto, con tanti, forse troppi interrogativi. Il 27 gennaio scorso l’assessore regionale alla sanità, Manuela Lanzarin, aveva diffuso un comunicato piuttosto incisivo. “Tramite la Direzione Prevenzione e le altre nostre strutture stiamo seguendo con grande attenzione tutte le evoluzioni del contagio, in modo da dare una risposta a qualsiasi eventualità possa coinvolgere anche nostri cittadini”. Non solo vigilanza, ma una vera attività operativa: “In queste ore stiamo attivando una task force regionale con l’apporto di tutte le strutture sanitarie, in particolare le unità di Malattie infettive, i laboratori di Microbiologia ed i Dipartimenti di prevenzione, insieme agli altri attori interessati come i Medici di medicina generale e altri professionisti operanti sul territorio”.

DIECI MILIARDI DI EURO

Una rete ampia, dispiegata da una struttura sanitaria che ogni anni spende 10 miliardi di euro, l’80 per cento del bilancio regionale. Infatti, il comunicato dell’assessore concludeva: “L’obbiettivo è dare le risposte più corrette ed efficienti nell’eventualità si dovessero presentare casi sospetti. In questa evenienza, abbiamo già anche individuato il centro regionale di riferimento nell’Azienda Ospedaliera di Padova. Oltre che per eventuali situazioni gravi, quest’ultima sarà il punto di indirizzo in Veneto per il numero verde 1500, attivato dal Ministero della Salute”.

Un mese dopo, quel comunicato induce qualche riflessione. Venerdì, quasi improvvisamente, il Veneto è piombato in un incubo. Ha scoperto un’emergenza che, stando alle parole dell’assessore, era prevedibile, forse perfino certa. Nel giro di un giorno si è venuti a sapere che nell’ospedale di Schiavonia, a Monselice, due pazienti erano affetti da Coronavirus. Per uno di loro, il pensionato Adriano Trevisan, 77 anni, di Vo’ Euganeo, non c’è stato nemmeno il tempo per il ricovero nell’Azienda Ospedaliera di Padova.

UNA DECINA DI INFETTATI

E’ deceduto poche ore dopo la scoperta che l’influenza per cui era stato ricoverato aveva origine nel virus cinese. Un altro pensionato, invece, è stato trasferito nel reparto di isolamento allestito a Padova. Ieri mattina si è scoperto un terzo malato di Mira, transitato per l’ospedale di Dolo. Ma le persone infettate sarebbero almeno una decina, tra cui, per ammissione del governatore Luca Zaia, la moglie e una delle figlie del povero Trevisan.

Zaia si è subito messo in prima linea, continuando a distribuire interviste e pubbliche rassicurazioni, illustrando le indicazioni operative e gli interventi che saranno adottati. In sintesi, un cordone dell’esercito attorno al paese di Vo’ Euganeo, con divieto per la popolazione di lasciare il territorio comunale. Una tendopoli di fronte all’ospedale di Schiavonia, che viene chiuso e svuotato progressivamente. Si calcola che in una settimana i 300 pazienti non ci saranno più. Nel frattempo esami e tamponi su 4.200 persone, i 300 pazienti, 600 dipendenti e 3.200 cittadini di Vo’ Euganeo. Uno spiegamento di forze senza precedenti.

Di fronte a tutto ciò sorgono spontanee alcune domande. La prima riguarda il fatto che i due primi pazienti siano rimasti nell’ospedale di Monselice per dieci giorni, senza isolamento, in una normale corsia, trattati come malati ordinari, a contatto con la gente e con il personale infermieristico. Possibile che a nessuno della struttura sia venuto il sospetto di trovarsi in presenza di Coronavirus, magari rivolgendosi allo Spallanzani di Roma? Sono stati effettuati i test? Che esito hanno avuto? E se non sono stati eseguiti, perchè si è ritenuto di non farli? A queste domande possono rispondere solo i responsabili sanitari che avevano in carico le due patologie e i due pazienti. Ma forse qualcuno dovrebbe farlo.

Le domande assumono maggior rilievo alla luce del comunicato-proclama dell’assessore Lanzarin, secondo cui si stava seguendo “con grande attenzione” già un mese fa la minaccia Coronavirus, per far fronte a “qualsiasi eventalità”. Ma quando l’eventualità si è presentata, per dieci giorni non è stata riconosciuta. E quando è stata scoperta, era troppo tardi, sia per il pensionato deceduto, che per evitare il contatto con infermieri e altri pazienti.

BUONE INTENZIONI E PROCLAMI

Le altre domande (e a queste dovrebbe rispondere la Regione Veneto) riguardano che cosa sia stato fatto in questo mese per mettere in piedi la task force annunciata dall’assessore che avrebbe dovuto intercettare il virus, grazie alla rete sul territorio. In questo caso il virus era già dentro i polmoni di due pazienti, in una corsia ospedaliera, non nel centro regionale di riferimento di Padova attrezzato per casi del genere. I proclami vanno bene per rassicurare l’opinione pubblica. Ma se alle parole non seguono i fatti, probabilmente qualcosa non ha funzionato. Tra le buone intenzioni, per contrastare l’allarme sociale, e le buone pratiche, per evitare che l’allarme si traduca in drammatica emergenza, c’è quella terra di nessuno in cui è legittimo coltivare il sospetto che la ricca sanità del Veneto abbia – nei fatti – sottovalutato il pericolo.


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